di VITTORIO ROIDI
Come si fa a riconquistare i lettori, a migliorare il nostro rapporto con i giornalisti? Conta il prodotto, certo, cioè il servizio che loro offriamo, ma conta anche come lavoriamo, conta essere trasparenti, non chiusi nelle redazioni, conta la loro fiducia e la nostra disponibilità a discutere e magari a chiedere scusa quando si sbaglia. A questo può servire il difensore del lettore. In Italia ce n’è solo uno: si chiama Anna Masera, lavora a La Stampa e risponde alle osservazioni e alle critiche di chi vuole discutere il contenuto e le scelte del quotidiano di Torino.
Studiosa dell’informazione e delle sue trasformazioni (nonché direttrice del master di Torino) la Masera spiega che i lettori “vogliono collaborare, fanno proposte, segnalano errori, sanno che li leggo e che rispondo”. Scrive sul numero del martedì, ma anche sui social e con email private dopo aver esaminato la critica e aver cercato di spiegare quel pezzo, quel titolo, quella foto.“Bisogna far capire ai colleghi che la trasparenza paga”.
La redazione non apprezza
La figura del garante è diffusa in molti paesi scandinavi e in genere anglosassoni, anche se il più famoso è quello dello spagnolo el Paìs, che fin dalla nascita – dopo la caduta del regime franchista – volle creare un rapporto stretto con i lettori, istituendo il difensore e pubblicando il “libro de estilo”, un meticoloso volume che contiene regole e metodi usati in quel giornale. In Italia ci sono state due esperienze rilevanti. Una al Messaggero con il garante nominato dal direttore Vittorio Emiliani nel 1986, il giurista Giuseppe Branca, che restò in carica pochi mesi. La figura fu soppressa subito dopo la sostituzione di Emiliani. Esperimento che peraltro la redazione (di cui il sottoscritto faceva parte) non apprezzò, considerato anche che a giudicare il suo operato era stato chiamato un non giornalista. La seconda alla Repubblica, prima con Piero Ottone, poi con Gianni Corbi, che tuttavia non rispondevano ai lettori dalle colonne del giornale, ma solo in privato. Con ciò annullando l’effetto che l’ombdusman avrebbe potuto avere per sulla reale trasparenza del quotidiano.
Il problema principale è quello dell’autonomia del garante, che è totale solo al Paìs perché qui il prescelto gode di un contratto da direttore, che lo rende indipendente da quello che guida latestata. Ma altrove non è così. Soccorrono naturalmente l’esperienza, il tatto, il buon senso. “Sono un po’ una mediatrice fra le due parti – racconta Anna Masera – e i colleghi del giornale li consulto, offro sempre la loro versione al pubblico. Non ho problemi, ma certo loro non si divertono a dover rispondere alle critiche e non amano il mio ruolo. Ci confrontiamo sempre. E’ una battaglia per il bene comune, il giornale”. Del resto è lei a ricordare che all’estero la figura del public editor in qualche caso è stata eliminata in testate dove storicamente c’era, come il New York Times: “Nessuno ama lavare i panni sporchi in pubblico. Si pensa che il dialogo sui social sia sufficiente, per garantire la trasparenza. Ma non è così”.
Due esempi, scelti fra quelli che Anna Masera ha pubblicato nelle ultime settimane.
Il bambino ucciso a botte
Il primo riguarda la lettera scritta da una coppia il 26 maggio, a proposito di un articolo di cronaca sul caso di un bambino di Novara ucciso a botte dai genitori. Erano impressionati dall’aver letto anche i particolari orribili dell’autopsia. La Masera ha invitato a rispondere l’autore del pezzo,Niccolò Zancan, il quale ha espresso il suo dolore e anche i suoi dubbi e ha poi aggiunto: “Non credo che avrei fatto un servizio migliore omettendo particolari che avreste potuto trovare su ogni altro organo di informazione. Ma se i fatti sono di tutti, so bene che il giornalismo consiste proprio nella sensibilità con cui vengono trattati. La mia scelta è stata di far parlare il procuratore. È lei che dice quella frase. Fra virgolette. Ora permettetemi un paragone eccessivo. La guerra è orrenda. Chi è chiamato a raccontarla non può addolcirla. Questo è il caso di una guerra familiare. Però, forse, almeno nel titolo in prima pagina avremmo potuto scegliere parole diverse. Vi ringrazio a nome di tutto il giornale per la vostra lettera. Per noi è molto importante questo tipo di confronto. Dobbiamo migliorare ogni giorno. Cerchiamo di farlo”.
Il secondo esempio si riferisce ad una notizia sulle relazioni sindacali all’interno del quotidiano. Spiegava Anna Masera “che era sfociata in una nota di protesta del Comitato di redazione de La Stampa, ovvero il sindacato interno dei giornalisti, abituato a essere informato per primo sulle modifiche alla nostra organizzazione del lavoro e che per questo ha criticato Direzione ed azienda auspicando «il corretto ripristino» delle relazioni sindacali. Quanto avvenuto chiama in causa il principio di massima trasparenza della vita in redazione che è la ragione stessa di vita di questa rubrica. E pone interrogativi di nuova generazione. Se il sindacato protesta per quanto scriviamo significa forse che dobbiamo limitare il nostro lavoro? Che rapporto deve esserci fra rispetto delle regole del sindacato e dovere di trasparenza? E infine: l’esigenza di massima trasparenza nelle comunicazioni è talmente aumentata nell’era digitale che forse le tradizionali relazioni sindacali non sono più adeguate?”
Ricordo, ancora una volta, che in Italia esiste solo un “Public editor”: questo.
(Nella foto: Anna Masera)