di FRANCESCO FACCHINI

Bisogna parlarne. Bisogna scoperchiare il vaso di Pandora dei pagamenti nel mondo del giornalismo e parlarne. Davvero. Non è questione di crisi, non é questione di convenienze. A mio avviso non è neanche questione di giusto compenso, pur con tutto il rispetto per la sacrosanta battaglia delle nostre componenti professionali.
In Italia viviamo una situazione che definire critica é ormai eufemistico, con il lavoro giornalistico completamente devastato nel suo riconoscimento. Molte testate, anche di rilievo, pagano i pezzi sotto i 10 euro lordi e per i video o i servizi multimediali non va meglio. La visione del mondo dei giornalisti parla di 50 mila attivi in Italia (su oltre 100 mila iscritti). Di questi, una percentuale molto ampia, più o meno il 65%, fa la libera professione. Oltre l’80% dei freelance guadagna meno di 10 mila euro all’anno (dati www.lsdi.it). Ergo non vive. Non può pianificare un futuro, avere stabilità. Ed é ricattabile.
In questa situazione allarmante la prospettiva del richiamo a migliori trattamenti da parte degli editori sembra chimera e vanno provate altre strade. Faccio una digressione e comincio la mia provocazione.
Nel settembre del 2017, prendendo parte a un momento di formazione professionale interordinistico al palazzo della Regione Lombardia a Milano, ho avuto l’occasione di parlare con Commercialisti e Legali di come poter codificare un nuovo modo di completare il contratto di servizi che si pone in opera tra il fornitore del contenuto giornalistico e chi lo pubblica. Già nelle pieghe di questo rapporto si pone in essere la perdita di potere contrattuale del giornalista che spesso viene insignito di un compito da un “capo” che nemmeno avrebbe nelle sue mansioni la possibilità di acquisire servizi verso un corrispettivo economico. Da lì cominciano i problemi.
I giornalisti, infatti, patiscono la difficoltà dell’avere la notizia in mano e cercare di venderla più velocemente possibile. Patiscono anche lo scarso potere d’acquisto, figlio del fatto che spesso non hanno accordi quadro, non hanno vere e proprie relazioni contrattuali. In quella giornata di settembre del 2017 ne parlai con i commercialisti facendo loro una domanda secca: “Come si può aiutare un giornalista a creare accordi veri con le testate per cui lavora? Come si può cercare di garantire il pagamento?”. Risposte? Vaghe e purtroppo sfuggevoli. Eppure dovremmo parlarne, perché modi per eliminare questa stortura iniziale ce ne sono. Eccome. Ci sta lavorando, per esempio, la startup milanese Kamzan che, anche su mia ispirazione conferita al team in modo totalmente gratuito, ha pensato a una piattaforma di transazione sicura per la consegna dei contenuti dei giornalisti agli editori riceventi.

Ah, a proposito: pagamento immediato. Si può fare: basta volerlo.
Ecco, qui qualcuno dirà “Si! Questo sogna!” (se non peggio). Eppure non c’è alcuna ricetta medica, alcun decreto, alcuna legge, alcuna norma, alcun regolamento il quale dia facoltà agli editori di pagare con quei ritardi mostruosi. La normalità, invece, è che il giornalista, quando vede i soldi pattuiti (se li vede…) li vede mediamente con 100 giorni di ritardo rispetto all’esecuzione del lavoro. Una situazione iniqua, la quale mortifica le possibilità del lavoratore libero professionista di crescere, perché spesso costretto ad anticipare tassazioni come l’IVA su emolumenti che non gli sono ancora arrivati nel conto in banca.

L’altra parte è il modo in cui si viene pagati. Volete la provocazione? Eccola. Io sono il primo giornalista italiano (non credo che sarò facilmente smentito) il quale è stato pagato per un servizio, in particolare modo per una consulenza, con un bancomat. Si, parlo proprio di un POS per la carta di credito, che chiunque può utilizzare.
Prima che inizino le pernacchie vi assicuro che non esistono elementi ostativi a questo tipo di pagamento per un libero professionista. Diciamolo: il freelance che esegue un’opera dell’ingegno e la consegna al cliente, con tutte le verifiche del caso, va pagato subito. Dobbiamo finirla con questo malcostume allucinante del pagamento dilazionato vista l’immaterialità del bene. Sinceramente, facendo un po’ di autocritica anche ai giornalisti stessi, dovremmo finirla di cedere i nostri lavori a prezzi che sono inferiori a quelli percepiti dalla baby sitter di nostro figlio. È uno schiaffo anche alla nostra dignità personale: meglio cambiare lavoro.
Tornando alla mia provocazione, posso confermare di averla provata in prima persona dando lezioni di mobile journalism a una collega che gradiva aggiornarsi su questi temi. Sono molte le aziende che forniscono questi hardware facilmente collegabili al telefonino i quali emettono anche la fattura adeguata. Io ho utilizzato Sumup, un’azienda tedesca che chiede commissioni un po’ alte per la transazione, ma non chiede canoni o vingoli. Comunque dalle banche alla posta le opportunità sono innumerevoli e danno la speranza tangibile di poter instaurare anche questa dinamica innovativa del rapporto con il cliente. Dopo la giornata passata con la collega, quindi, ho estratto il mio Pos, ho digitato il dovuto, ho emesso ricevuta elettronica e poi fattura subito dopo. Io ho fatto un servizio, lei ne ha goduto, lei mi ha pagato.
Ora ci possiamo scatenare in polemiche, spaccare il capello in quattro, parlare di valori e di deontologia, di editori e di giornalisti, di sindacati e istituzioni. Io propongo vie alternative che riportino al centro la necessità di un equo compenso per chi fa questo bistrattato lavoro e che non passi dall’obbligo, ma dalla ricostruzione del rapporto di collaborazione giornalisti-testate e da nuove modalità di pagamento. Si può fare, io l’ho fatto.

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