di MARCO FRONGIA
In un articolo vi abbiamo raccontato il progetto We Believe, promosso dal Guardian per coinvolgere maggiormente i propri lettori nel comprendere la crisi climatica in corso.
Un tema sul quale la comunità scientifica non ha dubbi: il cambiamento climatico è un fatto assodato, come afferma il 97% di oltre 1300 ricerche scientifiche svolte dai climatologi di tutto il mondo.
Ma se questa mole di articoli basta a far sì che il Guardian reputi l’argomento centrale per l’opinione pubblica, non è invece ancora sufficiente per convincere Il Giornale: “Allarme clima, 500 scienziati contro tutti: ‘È una farsa’”, scriveva Michele Di Lollo, derubricando una catastrofe attuale a sciocchezza senza fondamento.
Non sono noti i nomi di tutti i firmatari della lettera di cui parla Di Lollo, ma come ha evidenziato (tra gli altri) anche Open dire che si tratta di 500 scienziati è una forzatura: tra i promotori dell’appello conosciuti si trovano giornalisti, filosofi, un ingegnere che ha lavorato per la multinazionale del petrolio Shell e tanti altri esperti dei campi più disparati; ma neanche un climatologo.
Ancora: il 22 ottobre di quest’anno, Repubblica dedica un trafiletto al premio Nobel Luc Montagnier, incentrato sulle parole del virologo alla Conferenza sulla sostenibilità e la rigenerazione urbana organizzata dall’Università di Valencia. Nel pezzo, dal titolo virgolettato “Omeopatia, perché non bisogna ignorarla”, si sottolinea come Montagnier fosse nella città spagnola per ricevere un riconoscimento (la medaglia Prigogine) e viene spiegato brevemente come venga “spesso criticato dalla comunità scientifica proprio per la sua difesa di idee controverse”.
Premio nobel non credibile
Montagnier, insomma, viene presentato come un interlocutore autorevole. E il fatto che sia oggi del tutto privo di credibilità nel mondo scientifico viene spiegato in maniera decisamente insufficiente.
L’idea che l’omeopatia sia priva di efficacia non è affatto “controversa”: è il risultato di studi decennali, tutti concordi nel ritenere i prodotti omeopatici come portatori di un semplice effetto placebo. Oltretutto – fa notare una lettera aperta al direttore di Repubblica firmata dal Patto trasversale per la scienza (promosso dai professori Guido Silvestri e Roberto Burioni, e al momento sottoscritto da oltre seimila persone) – esiste un articolo del 2017 in cui proprio Repubblica racconta il declino di Montagnier da illustre virologo a sostenitore della papaya come cura per il morbo di Parkinson.
Questi solo due esempi di quello che è da tempo il rapporto tra giornali e scienza. Un rapporto complicato per tante ragioni: è ovvio che non tutti i giornalisti possano o debbano essere tanto preparati da sapersi barcamenare con successo tra riviste di settore, peer review e dibattiti tra esperti, pur trovandosi a trattare questi argomenti; come è altrettanto ovvio che il pubblico generalista si aspetta (giustamente) di poter far affidamento su qualcuno che possa rendergli un po’ più comprensibile un tema legato alla medicina, alla fisica o all’astronomia. Il successo di programmi televisivi come SuperQuark lo dimostra appieno.
Trovare l’equilibrio tra queste due spinte è oggi più importante che mai. Troppo spesso assistiamo al moltiplicarsi di articoli a tema “La scienza dice”, e troppo spesso una lettura un minimo approfondita del testo permette di scoprire come non sia “la scienza” ad affermare cose incredibili (per esempio, che il virus dell’herpes causa l’Alzheimer, come scriveva tempo fa il Telegraph, ma studi ancora troppo acerbi, pareri di singoli scienziati o pseudoscienziati, e persino semplici comunicati stampa – pubblicati senza verifiche, al massimo con qualche rielaborazione – di aziende interessate a promuovere se stesse e i propri prodotti.
Collaborazione conclusa
Sono tutte piccole trappole in cui il giornalista rischia di cadere per distrazione, poca scrupolosità, non sufficiente dimestichezza con il campo di cui si parla, o addirittura al preciso scopo di pubblicare qualcosa che punti solo ad accumulare condivisioni sui social, in barba a quanto sia corretto farlo. Causando danni non da poco, sia alla propria credibilità che all’interesse del lettore: “Sono molto pericolosi gli scienzati e i medici che quando parlano (o scrivono, o vanno in televisione) danno il loro parere e non quello della comunità scientifica”, ha detto qualche tempo fa il chimico e divulgatore Dario Bressanini ai microfoni del Breaking Italy Podcast, talk show di taglio giornalistico condotto da Alessandro Masala. Dire quello che si vuole “è legittimo” anche per uno scienziato, spiega ancora, “ma è veramente un danno”, perché può mettere in moto un processo che porta poi alla propagazione di bufale.
Lo stesso Bressanini, nel 2013, concluse una collaborazione con Il fatto quotidiano (spiega nel suo articolo di addio) perché stanco di vedere il proprio nome pubblicato fianco a fianco con quelli di complottisti, antivaccinisti, omeopati e persone che parlano di scienza a sproposito. “Io ci metto settimane o mesi – scrive Bressanini – a leggermi la letteratura scientifica originale e a scrivere un articolo, mentre a scrivere una cazzata con un copia e incolla ci si mette mezz’ora”.
Tra le tante battaglie da intraprendere per migliorare il giornalismo, non si può prescindere da questa. La divulgazione delle scoperte della scienza e della tecnica è un tema chiave del nostro tempo, e il pubblico ha diritto ad avere un’informazione alla propria portata, ma comunque di qualità. Riconoscere e osservare che abbiamo un problema, come spesso accade, è il primo passo per venirne a capo.
Del resto, non funziona così anche il metodo scientifico?
(nella foto, il chimico Dario Bressanini)