di ALBERTO FERRIGOLO
“I Cdr? I Comitati di redazione soffrono della stessa crisi di cui soffre oggi l’intero settore editoriale, salvo rare eccezioni. Quando la categoria è indebolita, continua a perdere posti di lavoro e arretra drammaticamente, arretrano anche tutti coloro i quali devono difendere le redazioni. A chi fa il Cdr oggi va ancor di più la nostra riconoscenza rispetto a chi lo faceva vent’anni fa. Vent’anni fa la condizione generale del settore era di crescita, litigavi certo, ma perché dovevi stabilizzare le persone. Adesso lo fai in condizioni di estrema difficoltà, di difesa e di autodifesa…”.
Lazzaro Pappagallo, segretario dell’Associazione Stampa Romana al suo secondo mandato, risponde così alla sollecitazione di esprimere una valutazione sullo “stato di crisi” dei Comitati di redazione, chiamati da tempo ad operare in una situazione di estrema difficoltà del settore, gravato dalla perdita di copie dei giornali, introiti pubblicitari in calo, richieste di cassaintegrazione, tagli di budget, di collaborazioni e collaboratori, e licenziamenti. Tema che Professione Reporter ha già affrontato con il segretario della FNSI, Raffaele Lorusso (“Guerra tra poveri, nessuno parla di qualità”) e con due articoli lo scorso luglio dal titolo: Che difficile mestiere il Cdr, da Repubblica, al Corriere, al Fatto Quotidiano e Cdr come sportelli reclami, travolti da fughe e prepotenza del marketing.
Crisi grave, ma reattività scarsa. O non all’altezza della gravità della situazione, eppure motivi per alzare un po’ la voce non mancherebbero.
“Ti racconto l’ultimo episodio, quello del Quotidiano Nazionale del Gruppo Riffeser. Viene proclamato lo sciopero dopo che l’editore al tavolo della trattativa fa balenare la prospettiva di più di 100-110 esuberi. Bene, si proclama lo sciopero come è giusto che sia, lo si fa, e per tutta risposta l’azienda fa arrivare una diffida con la quale dice che il Cdr verrà denunciato per “turbativa del mercato”. Questo è un fatto che solo cinque anni fa – non dico venti, ma cinque – era impensabile. In questo modo si intimidisce il diritto di sciopero, diritto costituzionalmente garantito, per altro inventandosi un reato assurdo, ma non è l’unico caso”.
A cosa ti riferisci?
“Un anno fa al Sole 24 ore, dopo che tutta la vicenda del numero delle copie digitali gonfiate è andata in giudizio, anche con dei provvedimenti penali nei confronti degli ex amministratori del quotidiano di Confindustria, il Cdr è stato preso di mira e sono state preannunciate cause milionarie nei confronti della rappresentanza sindacale, adducendo la motivazione che era stata rovinata la reputazione del quotidiano e di chi l’aveva diretto”.
Fare il rappresentante sindacale, farlo bene, non è mai stato facile. Espone a rischi. Anche a rappresaglie, intimidazioni della controparte. Ma qui parliamo anche della questione che il ruolo dei Comitati di redazione sembra esser venuto meno, negli ultimi anni. Per esempio, i Cdr sono spesso stati chiamati ad assecondare le richieste di stato di crisi delle aziende editoriali, favorendo le uscite dal mondo produttivo. Hanno, per così dire, facilitato il compito?
“La mia esperienza non è questa. Ho visto che i Cdr hanno sempre cercato di fare il possibile. È chiaro che molto spesso ci si viene a trovare di fronte a un ricatto occupazionale del tipo: “o fai così o chiudi e vai a casa”. Però in tutte le circostanze, se c’è una possibilità di strappare un accordo migliore da poter motivare, un’azione in base ad un’analisi di bilancio, o anche solo per rompere le scatole, tutto questo è stato fatto… Personalmente non ho mai visto un Cdr a cui viene detto “devi firmare”, e quello firma. Anche perché glielo impediremmo noi di rilassarsi, allinearsi o appiattirsi sulle posizioni del datore di lavoro”.
Però oggi la crisi dei Cdr è innegabile. L’ultima assemblea nazionale di maggio, al Cinema Adriano a Roma, è andata quasi deserta. Non esiste un vero coordinamento e una socializzazione delle esperienze e sopra la testa delle redazioni rischia di passare qualunque cosa. Dalle questioni tecnologiche a quelle deontologiche, dei diritti, delle competenze, degli organici e dei conseguenti carichi di lavoro. Ci sono situazioni che vengono definite letteralmente “esplosive”…
“La crisi dei Cdr oggi s’inserisce nel più generale tema della crisi della rappresentanza industriale, perché il sindacato stesso si muove all’interno di un sistema industriale che però non c’è più, si è sgretolato, disintegrato. Ma di pari passo non c’è più neanche il sindacato, se è per questo. Poi c’è la crisi del sistema delle rappresentanze e infine c’è una crisi profonda di vocazioni. Perché ci vuole anche una vocazione, una certa inclinazione, per decidere di caricarti sul groppone il fardello della rappresentanza, se lo vuoi fare in maniera pulita, trasparente… Tendo però a riscontrare che chi si impegna nel Cdr è una persona per bene, e sottolineo l’avverbio, che lo fa con lo spirito ancor più di servizio. Perché oggi non ce n’è per nessuno, siamo arrivati per davvero all’osso del prosciutto…”.
Quindi secondo te i Cdr sono all’altezza del loro compito?
“Da questo punto di vista ho visto mediamente Cdr sempre impegnati a tutelare al meglio la redazione, le retribuzioni, i diritti. La fase più generale è anche quella che, ma diciamo che mentre prima del 2014 gli editori ci marciavano molto rispetto alla richiesta dello stato di crisi, oggi la situazione è seriamente e davvero più drammatica. Nel senso, che non c’è nemmeno più chi viene a bussare alle porte del sindacato perché in quel momento ha bisogno di aiuto per alleggerire il fardello o perché il borsellino è vuoto. Oggi gli editori hanno semmai altre responsabilità”.
Quali?
“Per esempio quella di non aver saputo innovare sul prodotto. Quella di chi ha saputo approfittare degli stati di crisi solo per tagliare il costo del lavoro e non fare invece lavori di ristrutturazione e riorganizzazione più profondi e all’altezza vera delle necessità del mercato e di quelle industriali. Magari su questo aspetto la nostra attenzione come sindacato e anche da parte dei Cdr avrebbe dovuto essere più alta. Profonda. Quando si chiede uno stato di crisi con la solidarietà al 20%, forse andrebbe fatto uno lavoro di stimolo per evitare che ci si addormenti, perché non è affatto finita qui e solamente con il taglio della busta paga. In questo caso sarebbe forse necessario fare ancora un altro passo in avanti, come cultura generale intendo, e quindi dire non ci si ferma solo alla pura rappresentanza dei lavoratori, ma si dovrebbe decidere di entrare con tutte le mani e i piedi nelle dinamiche aziendali”.
Quindi è solo un fatto soggettivo. Di volontà decisionale. Di vincere la pigrizia, la soggezione e la reticenza. O c’è dell’altro? È anche un problema di strumenti?
“Certo, se avessimo una prospettiva – anche legislativa – che consentisse ai lavoratori di poter partecipare alla vita delle aziende, sia pur private, questo potrebbe essere un modo opportuno per poter meglio affrontare i nodi industriali, per avere una giusta chiave di lettura delle situazioni di crisi. I sindacalisti della France Presse, ad esempio, siedono nel Consiglio di gestione dell’agenzia di stampa. Se io, che sono il Cdr, siedo nel Consiglio di gestione dell’agenzia, dato che sono a conoscenza delle tue difficoltà cerco di farti compiere errori il meno possibile. Ma per far questo e attuare questa politica dovresti essere un sistema-Paese che punta su un modello di tipo tedesco. Ma noi, purtroppo, siamo invece avvolti in una dinamica solo di sopravvivenza. Dovremmo avere una prospettiva e di visione molto più ampia, un po’ più strategica”.
Quali sono le situazioni critiche nelle redazioni?
“Le situazioni più critiche a Roma sono quelle delle agenzie di stampa e dei quotidiani. Per le agenzie c’è ancora in qualche caso un pezzettino di cassa integrazione a zero ore. C’è il problema di Askanews con 23 licenziamenti e stiamo vedendo se c’è lo spazio per evitarli; l’Ansa per la prima volta nell’ultimo anno non ha uno stato di crisi ma ha perso il 50% dell’organico negli ultimi dieci anni. Per i quotidiani c’è il caso del Corriere, che in questo momento ha dati buoni dal punto di vista del bilancio, non buoni invece da quello delle copie vendute, mentre la Repubblica è in solidarietà; Il Messaggero, invece, non è in stato di crisi, ma tutti e tre i quotidiani messi insieme continuano a perdere copie cartacee e gli abbonamenti digitali stanno andando decisamente peggio del previsto e non sostituiscono affatto le copie perse. O comunque non le arginano. E se un tempo valeva il ragionamento secondo il quale il punto di equilibrio è dato dal rapporto di 1.000 copie vendute per redattore ordinario, questo criterio oggi non vale assolutamente più. Perché più perdi copie, più questo rapporto è destinato ad alzarsi. E, come mi diceva un membro di Cdr di un quotidiano importante, se noi continuiamo a perdere 10 mila copie all’anno, tra dieci anni siamo chiusi. E attualmente si tratta di una redazione di 140 persone”.
Dal punto di vista della rappresentanza, i Cdr un tempo intervenivano non solo sui temi della contrattazione interna, ma erano anche strumenti di controllo sui poteri, del direttore ad esempio, ma anche sulla invasività della pubblicità. Nelle redazioni stanno accadendo cose un tempo francamente inimmaginabili… o che comunque sarebbero state stoppate sul nascere. L’art. 34 è ancora uno strumento valido?
“Da un lato c’è un serio problema di alfabetizzazione dei Cdr e l’art. 34, per esempio, offre sempre molte possibilità, ma va utilizzato nel modo migliore. E’ mancata la trasmissione dei saperi da una generazione all’altra, a partire dai principi di libertà sul lavoro, la lotta ai condizionamenti nella politica, piuttosto che nell’economia, e tutto questo è venuto sicuramente a mancare. Passaggi di consegne mancati tra generazioni all’interno delle redazioni.
E il fatto che non ci siano stati più nuovi ingressi ha spento anche questa possibilità di trasmissione e di rinnovamento”.
Qual è l’età media dei membri dei Comitati di redazione?
“Quasi tutti i membri di Cdr hanno più di 50 anni. E anche questo è un problema, quantomeno di prospettive. Non è solo il saper leggere un articolo del contratto, lo devi poi anche interpretare e saper praticare. Se non lo pratichi, hai voglia poi a dire o lamentarti di come si deve fare il Cdr.
Tutti questi meccanismi si sono di fatto inceppati. Perché gli elementi soggettivi contano e contano molto. Ci vuole poi anche un po’ di coraggio e questo non te lo può insegnare nessuno. È una questione di indole, di cultura democratica, di appartenere a dei codici, che poi metti anche nel lavoro quando scrivi un articolo. Ci vuole anche un po’ di vocazione, alla lotta e alla mediazione. E all’ascolto. Se uno vuole fare il lavoro del Cdr si deve metter lì e ascoltare tutti i colleghi. Se invece pensi che i colleghi sono una scocciatura, allora non ti devi nemmeno candidare al Cdr”.
Alcuni giorni fa, in un colloquio con Il Foglio, Ludovico Festa, già condirettore di Giuliano Ferrara, rievocando la storia del Comitato di redazione del Corriere della Sera, che “decideva la politica e non l’etica dei calendari” attraverso il marketing un po’ aggressivo del suo editore sulle proprie testate, osservava che ormai nelle redazioni dei giornali è in corso una sorta di “scontro di classe” tra generazioni. “Il Corriere – dice Festa – aveva una redazione con due terzi di privilegiati a stipendi alti, e un terzo di ‘iloti’ a mille euro al mese. Adesso gli iloti sono diventati maggioranza, e si crea una situazione difficile da gestire”. Ovvero, proprio quel che in termini marxisti sarebbe, appunto, a tutti gli effetti uno scontro di classe. Sei d’accordo?
“In linea generale direi di sì. Condivido questa impostazione, però poi c’è il paradosso che la maggior parte dei colleghi da lotta o scontro di classe, che sono poi i collaboratori dei giornali, i Cdr la rappresenta fino ad un certo punto… Quindi Il Cdr finisce per rappresentare una fascia media delle redazioni, che però poi vive il collaboratore come una necessità, ma nello stesso tempo anche quasi come un pericolo, perché gli ricorda la fine che potrebbe lui stesso fare nel caso in cui le redazioni dovessero ancora ridurre il perimetro dei propri organici. Insomma, come valutazione di carattere generale la condivido: la lotta di classe si è spostata oggi fuori dalle redazioni, tra i collaboratori che sono quelli peggio pagati, ma che però fanno molto spesso i giornali da cima a fondo, spremuti come limoni. Perché sono quelli che vanno sui posti, trovano le notizie, fanno i servizi, propongono le idee essendo di fatto una parte portante, importante se non persino strutturale del lavoro giornalistico”.
Allora, cambiamo paradigma. Se la crisi dei Cdr è anche un po’ l’emblema della crisi della democrazia, riflettendola, com’è invece lo stato delle redazioni?
“All’interno, più che una lotta di classe, c’è invece una lotta di automazione”.
Puoi spiegarti?
“Nel senso che quando vado in giro per redazioni vedo colleghi incolati con gli occhi ai computer, e li definirei più che altro “scoglionati” se mi passi il termine, perché ormai ridotti ad una routine continua, al passaggio di notizie, pezzi, titoli, e poi con il web tutto questo si accentua ed esaspera ancor di più. Lì, in quel caso sei proprio inserito in quel che io definisco il “sistema industriale delle ripetizione” e della coazione a ripetersi. Da un lato c’è l’oblio interno dell’automazione e la lotta di classe fuori dalle redazioni E dentro chi la dovrebbe fare invece non riesce neppure ad aggregarsi e a dire “ok, basta”…
Prevale il clima di intimidazione mentre la direzione ti stressa di richieste. Quindi, per concludere, quando ci si trova in un contesto nel quale perdi posti di lavoro, c’è enorme sofferenza. E nel momento in cui il Cdr fa quello per il quale i colleghi lo votano e cerca di farlo nel modo migliore possibile, arrivano intimidazioni e minacce, è chiaro che la voglia di impegnarsi e combattere comincia a venir meno, si riduce. Perché le condizioni esterne sono molto più infelici e non riguarda solo l’editoria. Riguarda un po’ le garanzie nel mondo del lavoro e il ruolo che ha in generale il sindacato dal ruolo della rappresentanza di base fino al segretario generale della Cgil. Dal ganglio più piccolo fino alla punta della piramide”.
(nella foto: Lazzaro Pappagallo)