di GIAMPIERO GRAMAGLIA

Al-Baghdadi: quando le foto (e i presidenti) mentono
Un punto è certo: Abu Bakr al-Baghdadi, l’autoproclamato Califfo, il capo dell’Isis, il sedicente Stato islamico, è stato eliminato sabato 26 ottobre, in un raid delle forze speciali Usa. Il resto, tutto il resto, audio, video ed effetti speciali del racconto fatto all’America e al Mondo da Donald Trump, non supera il vaglio della Var dei media. A cominciare dalla foto di Trump e del suo staff, riuniti nella Situation Room della Casa Bianca durante il blitz; per finire alle invocazioni d’aiuto del capo dei tagliagole (le immagini originali erano senza sonoro). I dubbi innescano battute acide sul web, anche se non v’è certezza sulla “teatralizzazione” della scena da parte dello “showman in capo”.

Intendiamoci!, con l’eliminazione di al-Baghdadi, il Mondo è un posto un po’ più sicuro: almeno nell’immediato, meno violenze dei miliziani integralisti e meno attentati perpetrati da loro emuli. Anche se la scomparsa del capo non azzera la pericolosità dell’Isis, che è un gruppo largamente decentralizzato e continua a costituire una minaccia.
Al-Baghdadi, 48 anni, formatosi nelle scuole islamiche dell’Iraq sunnita, qualche mese passato nella prigione americana di Camp Bucca, poi una “carriera” tra al Qaida in Iraq e la formazione dell’Isis, era il terrorista più ricercato al Mondo, l’unico capace di dare al territorio da lui controllato un assetto statale e al proprio network una dimensione globale, colpendo dall’Indonesia all’Africa, dal Medio Oriente al cuore dell’Europa, in modo sistematico o mobilitando “lupi solitari”.
Domenica 27 ottobre, il presidente Trump ha fatto in conferenza stampa un vivido racconto dell’accaduto: “E’ morto come un cane…, come un codardo”, ha detto del Califfo, fattosi esplodere, insieme a tre figli, in un tunnel dove aveva cercato rifugio, inseguito dai cani militari. Nell’operazione, gli americani non hanno subito perdite: due soldati feriti, e un cane.

Immagine scattata dopo

Pete Souza, uno che se n’intende, l’ex fotografo ufficiale di Barack Obama e Ronald Reagan, contesta la veridicità, o almeno la spontaneità, dello scatto che ritrae il presidente e il suo staff: “Una foto in posa, costruita ad arte”, twitta. E spiega: “I dati Iptc della macchina fotografica mostrano che è stata scattata un’ora e mezza dopo la conclusione dell’azione del commando”.
Souza fece la famosa foto con Obama, Joe Biden, Hillary Clinton, vari altri nella Situation Room, quando venne ucciso Osama bin Laden nel blitz dei Navy Seals il 1° maggio 2011 ad Abbottabad, in Pakistan: un’immagine molto più intensa, con la drammaticità del momento sui volti dei presenti. Lo scatto di Trump, invece, è statico e fin troppo simmetrico: tutti sono rigorosamente in giacca e cravatta, ordinatamente disposti intorno al presidente al centro; e tutti guardano dritto verso l’obiettivo, lo sguardo cupo, ma senza angoscia sul viso.
Intorno a Trump, al posto di comando, ci sono a destra il vice presidente Mike Pence e il consigliere per la Sicurezza nazionale Robert O’Brien; a sinistra il segretario alla Difesa Mike Esper e a seguire, in ordine d’importanza, il capo di Stato Maggiore Mark Milley e il vice per le operazioni speciali Marcus Evans.
La notte della morte di bin Laden, nella Situation Room Obama, un po’ ingobbito nella sua sedia e defilato, indossava una camicia bianca senza cravatta e un giubbotto scuro stile aviatore. Il posto di comando era del generale Marshall “Brad” Webb. La stanza era affollata in ordine sparso, Hillary appariva sconvolta, con la mano sulla bocca.

Urla e pianti da verificare

Anche il New York Times fa le pulci al racconto di Trump, caricato di effetti speciali, a partire dall’immagine del Califfo che urla e piange nel tunnel dove si fa poi esplodere. Secondo il giornale, le immagini proiettate nella Situation Room era senza audio; e quelle di al-Baghdadi nel tunnel non sarebbero neppure giunte in diretta, perché sono state riprese dalle telecamere installate sugli elmetti dei militari americani (video però consegnati a Trump solo dopo la conferenza stampa).
Messo alle strette dai giornalisti, Esper cincischia e i vertici militari non confermano. Ma Trump non batte ciglio: dice di essere pronto a rendere pubblico in parte il filmato del raid. Quando lo fa, mercoledì 30, le immagini non avallano il racconto e sono mute: lo “showman in capo” fa spallucce, a essere sbugiardato.
Forse anche per questo, il successo del raid contro al-Baghdadi non sembra avere fatto guadagnare popolarità al presidente. Quando arriva con la first lady Melania al National Park di Washington, per una partita delle World Series di baseball, viene accolto da un sonoro “buu”, da cori “lock him up”, “arrestatelo”, e da striscioni con su scritto “Impeach Trump”.
Secondo fonti di stampa, Trump sapeva che la Cia era vicina ad al-Baghdadi, quando ordinò il ritiro delle truppe dalla Siria, complicando il lavoro dell’intelligence e inducendo il Pentagono a stringere i tempi del raid. Militari citati dal New York Times dicono che l’operazione è avvenuta nonostante Trump e non grazie a Trump.

(nella foto: la Situation Room della Casa Bianca dopo l’uccisione di al-Baghdadi, a sinistra e dopo l’uccisione di Bin Laden, a destra)

 

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