di ALBERTO FERRIGOLO
E se un giorno i free lance si fermassero? Facendo uno sciopero? Che ne sarebbe dell’informazione? Cosa potrebbero scrivere e pubblicare giornali, tv, radio, per non parlare poi dei siti? Di sicuro lo sciopero si inserirebbe come un cuneo negli ingranaggi dell’informazione provocando, forse, un black out. Perché ormai i free lance dell’informazione, ben inseriti nel sistema, usati&sfruttati, sono un esercito. Che fa andare avanti il sistema. “Copriamo oltre il 60% dell’informazione” puntualizza Marina Piccone, che ha curato la regia e la produzione di un video sui problemi dei free lance dal titolo ZeroPotere.
E l’idea, alcuni, cominciano ad accarezzarla. Tanto che la sera del 23 gennaio si sono riuniti a Roma, nella sede Arci Koké di Monteverde, per discuterne e raccontarsi le esperienze. L’incontro era intitolato “Freelance Pride”.
“Fino al 2011 – dice Barbara Schivulli, giornalista freelance di guerra, che sino a pochi giorni fa era a Baghdad – la nostra situazione era ottima. Posso dire di aver emesso delle gran belle fatture! Poi è arrivata la crisi”. E da allora può capitare che alcuni pezzi vengano pagati anche 3,99 euro oppure 4 o che vengano conteggiati 4 cent a riga… “Non si può più accettare, bisognerebbe cominciare a dire di no. Ma fino a che ci sarà qualcuno che continuerà a dire di sì e accettare simili condizioni, la situazione non può cambiare”.
I più fortunati possono ambire a 25 euro per 4 mila battute, oppure 15 per 1.200 o 30 euro per 3.600 battute. E prima di ricevere il denaro, passa un po’ di tempo.
Africa e Medioriente
Qui non stiamo parlando di giornalisti o di freelance qualsiasi. Parliamo di persone che fanno reportage e inchieste dal Mali, dall’Iraq, dal Congo, dall’Africa del Nord, del Centro o del Sud, dal Medioriente. Che hanno spese. Di aereo, prima di tutto. Di viaggi, di alloggio, pranzi e cene, di stringer da assoldare sul posto, di assicurazioni sulla vita, “della necessità di acquistare un giubbotto antiproiettile, per esempio”. Tutti insieme contribuiscono a reggere l’informazione di primo piano del nostro sistema mediatico. “Dal quale, però, i freelance sono considerati giornalisti di serie B”, continua Schiavulli.
Da solo, il singolo freelance “non conta nulla” e poi “la crisi ha messo uno contro l’altro”. Dunque, “chi fa esteri, prima ancora di partire ha già maturato un debito…”.
Alessia, è una giovane freelance, che però si avvale anche di una piccola collaborazione con contratto: “In qualche modo sei costretto ad accettare quel che ti viene proposto, perché il tuo interlocutore nelle redazioni, caposervizio o caporedattore, ti avverte subito: non ti interessa il servizio? Fuori c’è la fila…. È come un’asta al ribasso, una concorrenza sleale”, puntualizza.
Pezzi, foto e video
Michele Vertelli è invece un videomaker freelance dal 2012, soprattutto per l’America Latina, e ultimamente ha deciso di fermarsi in Italia per scrivere per testate straniere: “Dal 2014 – racconta – le condizioni di questa professione sono peggiorate. Sono otto anni che faccio questo mestiere e non sono ancora iscritto all’Ordine dei giornalisti, forse mi iscrivo il mese prossimo, certo non cambia granché, ma questo solo per dire quanta fatica costi riuscire ottenere e formalizzare una minima forma di tutela… Però posso garantirvi che a Londra, dove ho vissuto un anno e ho studiato giornalismo, dopo tre settimane ero iscritto al sindacato dei giornalisti inglesi… E’ una parte del problema, anche se a me sembra che alla maggioranza degli editori questo tema non interessi nulla. Riuscire a bypassare questa barriera è molto complesso…”.
Cristina Mastrandrea, fotografa, racconta di sé dicendo che “oltre le foto faccio anche video per la tv, per i siti, per tante testate ed è tutto un collage continuo di pezzi, foto, video”, per sfruttare al massimo le possibilità che offre il mercato. “In genere la televisione è quella che paga un po’ di più”, mentre i compensi dei servizi fotografici “sono stati dimezzati”. La soluzione? “Lavorare per più testate possibili… piazzando lo stesso lavoro sotto forme diverse su più mezzi… e sempre che l’argomento sia d’interesse, perché a volta succede che magari uno fa un lavoro che sembra interessante, ma scopre poi che non è vendibile… Bisogna sempre un po’ calibrare gli interessi personali con le esigenze del mercato”. Stella, che è una giornalista e fotografa freelance tornata in Italia da pochi mesi da New York (tutti le chiedono: “Perché sei tornata…?”), dove ha frequentato anche un Master in giornalismo, constata che “purtroppo non ci sono soldi, al di là del fatto che il lavoro del freelance è svalutato” e che “non posso pensare di trascorrere la mia vita a cercare i soldi per finanziarmi un’inchiesta, un servizio, un reportage”.
Come si trova il denaro
Si parla anche di giornalismo di qualità, “che ha un mercato, perché la gente lo richiede ed è anche disposta a sostenerlo”, dice Barbara Schiavulli: “Quando devo partire ricorro al crowdfunding e “in pochi giorni sono in grado di racimolare il denaro che mi occorre”. Ma Stella non è d’accordo e ribadisce il suo concetto: “Un giornalista non si dovrebbe occupare di trovare il denaro per fare la sua inchiesta”. Floriana Bulfon, che si occupa di inchieste e criminalità organizzata per importanti testate, ha fatto la giornalista freelance per diverso tempo e ora può invece contare su un contratto di collaborazione, dice che la situazione è questa “e peggiora, ne siamo consapevoli”. Vuole però dare un messaggio minimo di speranza, portando ad esempio una possibile modalità di lavoro: quella che ruota intorno alla collaborazione con i team internazionali di giornalismo, nel suo caso l’Agenzia Lena legata al Gruppo Espresso-Repubblica.
“Ho scelto di fare inchieste – dice Bulfon –, che sono molto faticose, sono lavori lunghi, richiedono del tempo e anche investimenti. Ma è certo che non puoi vederti pagare un’inchiesta, durata magari due mesi di lavoro, 50 euro o mettiamo anche 100… con visure, controlli e tutto il resto che le inchieste si portano dietro. Quindi, è interessante lavorare con giornalisti di altri paesi e vendere lo stesso lavoro su più testate. Quanto a me, io posso garantire loro le informazioni sulle organizzazioni criminali in Italia. È una questione di conoscenze , di scambio e di sinergie. Poi c’è la traduzione di questi pezzi, insomma un lavoro in équipe che garantisce di più sotto molti punti di vista. Per le inchieste di cui mi occupo io funziona, altrimenti sarebbe impossibile farle, tanto più se si considerano le querele temerarie che vengono portate avanti con richieste di risarcimento impossibili, che poi devi affrontare in prima persona pagandoti le spese legali, gli avvocati che ti tutelino: non sempre hai dietro il giornale che ti sostiene”.
pagamento in massaggi
Floriana Bulfon consiglia di replicare questo metodo di lavoro su anche altre tipologie di servizi. Non foss’altro per abbattere i costi.
La riunione continua con altre testimonianze. Qualcuno testimonia che “c’è pure chi ti propone di pagarti in massaggi…”.
Secondo i dati contenuti nell’edizione 2019 dell’Agenda del giornalista, in Italia ci sono 110.950, oltre a 10.273 addetti stampa. L’Ordine conta 30mila iscritti all’Albo dei professionisti, la cui attività professionale principale è di tipo giornalistico, e circa 75mila a quello dei pubblicisti, per lo più collaboratori che svolgono anche altre attività. Come censito dalla stessa Inpgi, la cassa previdenziale della categoria, negli ultimi cinque anni sono stati persi 2.704 posti di lavoro e soltanto il 16% circa dei giornalisti italiani (cioè 15.876) può vantare un contratto di tipo giornalistico. Tutti gli altri sono parte di aziende private o fanno parte della pubblica amministrazione, di agenzie di comunicazione oppure sono collaboratori freelance e fanno parte del variegato popolo delle partire Iva. Sono l’indotto cospicuo, cioè quel 60% che costituisce il grosso del mondo dell’informazione.
Torna la domanda iniziale: E se davvero un giorno quest’ultimi – i freelance – decidessero tutti insieme di incrociare le braccia e fermarsi…?
(nella foto, Barbara Schiavulli)
Leggere anche:
l’intervista a Barbara D’Amico, collaboratrice del Corriere della Sera che ha interrotto il rapporto di lavoro con il quotidiano di via Solferino dopo aver inviato una lettera in cui affermava che “il giornalismo non è più sostenibile”.