Ricordare chi era Walter Tobagi e perché fu ucciso. Occorre farlo, per coloro che nel 1980 non c’erano e per quelli che troppo presto hanno dimenticato. Era il 28 maggio.

I terroristi “rossi”, come allora si chiamavamo, avevano ammazzato altri giornalisti (Casalegno) e molti ne avevano feriti (Indro Montanelli, Emilio Rossi, Guido Passalacqua). Li ritenevano uomini da annientare per far vincere la loro presunta rivoluzione.

Tobagi aveva 33 anni, una moglie e due figli. Era uno dei redattori più brillanti del Corriere della Sera. Inviato speciale, studiava il mondo del lavoro, era il presidente dell’Associazione lombarda della stampa. E osservava il terrorismo. Fu ammazzato per via di un articolo pubblicato il 20 aprile di quel 1980. Aveva capito che le bande armate che da quindici anni insanguinavano il Paese ormai erano al declino. Dopo tanti inutili omicidi a lui appariva chiaro che il popolo non era dalla loro parte. Aldo Moro era stato rapito e ucciso due anni prima, all’apice di una macabra curva e anche se gli attentati contro giudici, professori universitari, imprenditori, operai, giornalisti proseguivano, gli italiani respingevano nettamente il ricorso alla violenza e alla lotta armata. Gli operai, gli studenti, i ceti sociali nei quali i terroristi avevano sperato di fare proseliti, non li avevano ascoltati. Erano soli. “Non sono samurai invincibili”, scrisse Tobagi sul Corriere e quell’articolo gli costò la vita. Lo spiegò Marco Barbone, il giovane capo della banda sciagurata. “Tobagi era un giornalista che a noi appariva destinato ad assumere sempre maggior incarichi di responsabilità. Era stato scelto come un obiettivo nei confronti del quale la logica e la prassi della lotta armata imponevano l’annientamento”.

Il blitz dei carabinieri

Il gruppo di Barbone, che aveva preso il nome Brigata XXVIII marzo (giorno del blitz dei carabinieri a Genova, dove nel covo di via Fracchia erano stati uccisi quattro terroristi) era composto anche da Gennaro De Stefano, Mario Marano, Paolo Morandini, Daniele Laus e Francesco Giordano. Imitavano la strategia delle Brigate rosse. Scelsero di colpire Tobagi dopo aver scartato altri nomi (dissero: Pansa, Nozza, Bocca). A marzo, per conto del Corriere, il giornalista era andato a Genova, aveva raccontato quello scontro a fuoco e aveva sottolineato l’indifferenza con cui gli abitanti del quartiere del capoluogo ligure dove si trovava il covo, avevano accolto la notizia dell’eccidio. “E’ come se perfino un sentimento di pietà non possa più trovare spazio – aveva scritto Tobagi – è la conseguenza più avvilente di quella strategia perversa che ha voluto puntare sulla lotta armata”. Lo avevano condannato. La banda, dopo aver gambizzato il 7 maggio il cronista di Repubblica Guido Passalacqua, decise di eliminare Tobagi e scelse quel giorno, il 28.

Quella mattina il giornalista uscì dall’abitazione di via Solaino e fece per attraversare la strada verso l’edicola dei giornali, che si trovava sul marciapiedi di fronte e dietro la quale lo aspettavano i killer. Sembrò esitare e allora i due gli si avventarono addosso. Prima sparò tre colpi Marano, che si faceva chiamare “Fabio”, poi altri due li esplose lo stesso Barbone, che fece fuoco sul corpo ormai a terra.

sproporzionate responsabilita’

Dopo quattro mesi la banda fu individuata e arrestata dal Nucleo antiterrorismo guidato dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa (che sarebbe stato ucciso dalla mafia, sei mesi più tardi, a Palermo). Portato davanti al Pm Armando Spataro, Marco Barbone, che aveva solo 22 anni, cominciò subito a collaborare e lo stesso fece l’appena ventenne Paolo Morandini. Raccontarono tutto: la formazione della brigata, la folle ideologia pseudorivoluzionaria, i ferimenti precedenti, le rapine, la preparazione dell’agguato a Tobagi, l’esecuzione, la fuga. Poi Barbone parlò del proprio crollo psicologico, “la sensazione di esserci assunti delle responsabilità, prima umane che politiche, assolutamente sproporzionate a qualsiasi tipo di logica e di giustificazione”. Lo spiegò durante il processo davanti alla Corte d’Assise, nel marzo del 1983. La legge gli consentiva di usufruire di robusti sconti di pena. Infatti, la sentenza finale indicò per lui e Morandini le condanne più lievi: 8 anni e sei mesi. Uscirono in libertà provvisoria dopo tre anni dall’arresto. De Stefano ebbe 28 anni, ma morì in carcere, per gli altri arrivarono condanne fino a 21 anni. Morandini è morto un paio d’anni fa. I sopravvissuti sono tutti liberi, chissà dove.

Giustizia era stata fatta, ma per parecchi anni rimasero strascichi, dubbi, polemiche, su un misterioso biglietto trovato nella casa del capo della P2, Licio Gelli, e soprattutto sui presunti mandanti, che secondo alcuni si sarebbero annidati addirittura all’interno della categoria dei giornalisti. I Pubblici ministeri Pomarici e Armando Spataro hanno scritto due anni fa che sull’omicidio Tobagi non sono rimaste ombre. “L’omicidio di Walter Tobagi del 28 maggio 1980 è un atto terroristico di cui tutto si sa e intorno al quale non esistono misteri e reticenze. Le indagini, peraltro, furono portate avanti dai Carabinieri del generale Dalla Chiesa e guidate da due ufficiali di sua fiducia, tra i migliori investigatori che abbiano mai operato in questo Paese”.

Tobagi è rimasto un simbolo del nostro giornalismo migliore, ha meritato libri e articoli struggenti. Il terrorismo sembra lontano. Dopo quaranta anni, il figlio Luca, che all’epoca del delitto era un bambino, ha illustrato sul Corriere gli ideali di Tobagi, lontano da ogni ideologia, e ha scritto: “Tutte le persone che lo vogliono ricordare potrebbero fargli un regalo e domandarsi una volta di più che cosa possano fare, una per una, per creare un contesto quotidiano di rispetto reciproco, per evitare che certe situazioni, che in qualche misura hanno contribuito a creare le condizioni della sua morte, si ripetano”.

Professione reporter

(nella foto, Walter Tobagi con Aldo Moro)

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