di ALBERTO FERRIGOLO

Si è abbattuto come uno tsunami l’effetto del coronavirus sul mondo editoriale. Giornali, radio, televisioni, libri. Ma non è solo una questione di organizzazione, palinsesti, numero di notizie o di pagine, pubblicazioni. Prevalentemente è un problema di risorse. Il crollo degli introiti pubblicitari per tre mesi ha prodotto guadagni pari quasi allo zero. Poi c’è la mancata vendita delle copie, i programmi dimezzati, il rinvio delle novità editoriali, la chiusura per settimane delle librerie.

Nel settore radio private, ad esempio, si è ricorsi alla cassa integrazione e al dimezzamento delle redazioni. Emblematico il caso di Radio Capital dove s’è interrotto il progetto di rilancio avviato dal direttore Massimo Giannini, poi passato improvvisamente a dirigere La Stampa, avvicendando Maurizio Molinari che ha rimpiazzato Carlo Verdelli a la Repubblica, dopo il licenziamento in tronco il 23 aprile scorso. Per lo più tutte le principali emittenti private hanno rivisto totalmente il proprio profilo informativo, rinviando di molto o sospendendo persino sine die il pagamento dei collaboratori. Anche se si registra una recente inversione di tendenza, con un progressivo incremento dell’ascolto radiofonico, come dimostra la ricerca del Tavolo editori radio.

ottanta milioni

Il problema è che ancora la ripresa non c’è. L’automotive è in crisi profonda e più o meno tutte le aziende non sanno come e cosa pubblicare sotto forma di spot. Mancano i contenuti e, soprattutto, i contenuti giusti. Se la réclame è l’anima del commercio, quest’ultimo al momento è sospeso. Tuttavia, al fine di consentire alle emittenti radiotelevisive locali di continuare a svolgere servizio di pubblico interesse sui territori attraverso la quotidiana produzione e trasmissione, è stato “eccezionalmente stanziato l’importo di 80 milioni di euro”, aggiuntivi rispetto agli stanziamenti già previsti dalle leggi vigenti nel Fondo per il Pluralismo e l’innovazione dell’informazione, da far confluire nello stato di previsione del Mise e da erogare entro e non oltre 60 giorni dall’entrata in vigore del decreto sul coronavirus.

Radiorai non ha tagliato, ma è ricorsa allo smart working in maniera massiccia, con trasmissioni fatte interamente da casa, riducendo i turni e con numeri di personale in presenza di gran lunga inferiori. E però dal 19 giugno sono tornati i concerti radiofonici dal vivo nella (vuota) sala B della storica sede di via Asiago 1 con “Back2Back Speciale Let’s Play”, a cura di Ema Stokholma e Gino Castaldo. A parte le principali (oltre a Capital, Radio24) in genere il mondo delle radio è fatto di piccolissime redazioni che spesso utilizzano dei service per un prodotto informativo già confezionato.

Tra le agenzie di stampa c’è poi il caso dell’Ansa, a metà tra tagli e cassa integrazione per la perdita di introiti previsti tra i 4 e i 5 milioni nel 2020. Askanews, invece, che in un primo tempo doveva licenziare 23 giornalisti su un organico complessivo di 80, ha poi chiuso un accordo che prolunga la cassa integrazione fino al 31 dicembre prossimo, grazie ad un norma ad hoc inserita nel decreto Milleproroghe.     

Computer in condominio

Sempre per via dello smart working i giornalisti de Il Gazzettino di Venezia, nella sede distaccata di Pordenone, hanno decretato lo stato di agitazione a partire dallo scorso 18 maggio. “Nonostante il senso di responsabilità sempre dimostrato – si legge in una nota del Comitato di redazione – dall’Azienda e dal direttore Roberto Papetti i giornalisti non ricevono risposte, solo imposizioni che a tratti calpestano anche la dignità dei singoli e fanno leva sul ricatto occupazionale”, denunciano. Il punto è che dall’avvio del lockdown, “facciamo ogni giorno il Vostro e nostro giornale, cartaceo e online, da casa, a nostre spese – sostengono rivolgendosi alla proprietà –  utilizzando telefonini personali, computer personali, linee dati personali”.

“L’Azienda, del Gruppo Caltagirone – prosegue ancora la nota del cdr – ha imposto lo smart working con dotazioni insufficienti: per 77 redattori abbiamo solo 55 pc portatili con il sistema editoriale installato, e dobbiamo continuamente scambiarceli l’un l’altro, da casa a casa, con viaggi quasi quotidiani in lungo e in largo per Veneto e Friuli, fatti in aggiunta all’orario di servizio, spesso in giorno di riposo o ferie, e senza rimborsi spese”. “Veneto e Friuli ripartono, deve ripartire anche il Gazzettino. Basta con le proroghe del lockdown aziendale. I giornalisti – conclude il Cdr – debbono poter tornare sul territorio e nelle redazioni, in sicurezza, e chi fa smart working deve essere messo in grado di lavorare”. La verticalizzazione dei processi decisionali e la verticizzazione della catena di comando in era Covid e anche post-lockdown è fenomeno che ormai sta istituzionalizzando con il passare dei giorni, a discapito dell’organizzazione collegiale del lavoro nelle redazioni.

Un po’ diversa la situazione a la Repubblica con l’ordine di servizio della direzione sulle “docking station”, le postazioni volanti prive di computer fisso e un massimo di 178 presenze al giorno in redazione. “Lo smart working – dichiara Raffaele Lorusso, segretario della Federazione nazionale della stampa riferendosi però al caso de Il Gazzettino di Trieste – può essere una modalità per certe situazioni e ambiti, per coprire alcuni eventi, ma non può essere la regola del nostro settore. Questa è l’opinione non solo dei colleghi ma anche di numerose e grandi aziende che si stanno riorganizzando per riportare i giornalisti in redazione. Il tema della sua regolamentazione dovrà essere affrontato con la Fieg e declinato nelle singole aziende”, sottolinea il segretario della Fnsi.

A Il Giornale, invece, lo scorso 18 marzo è capitato che la Mondadori abbia dimezzato la propria partecipazione nella testata, passando al 18,4% dell’azionariato della Società Europea di Edizioni, l’editrice, mentre la redazione è in solidarietà al 21% e disponendo di una piattaforma tecnologica “su cui poco si è investito”, fanno notare dalla sede di via Negri.

Cassa integrazione in deroga al Gruppo Corriere, che edita le omonime testate locali in Umbria, Toscana e Lazio, dove per altro già vige un contratto di solidarietà con una riduzione dell’orario di lavoro del 30%, che scadrà il 15 marzo del 2021. Tanto che l’Associazione Stampa Umbra ha ritenuto inaccettabile il ricorso ad un secondo ulteriore ammortizzatore sociale. Il risultato è che l’applicazione della cassa integrazione in deroga per nove settimane a zero ore per 25 giornalisti finisce per escludere più della metà dei redattori dalla confezione delle edizioni del quotidiano diffuse nelle tre regioni di riferimento. Intanto il 6 aprile l’edizione del Corriere di Siena non è andata in edicola, non per sciopero né perché abbia chiuso, ma perché i giornalisti sono in ferie ed esaurite quelle saranno costretti ad utilizzare permessi retribuiti. Il 21 aprile, poi, l’azienda ha parzialmente accolto le richieste della controparte sindacale riaprendo l’edizione senese con l’aggiunta di quattro giornalisti ai 18 che saranno poi impiegati a pieno regime per nove settimane e con la riattivazione del contratto di solidarietà al termine della Cigd, previa verifica con le organizzazioni sindacali sull’andamento del mercato.

ventunomila titoli in meno

Prospettive, dunque? Nel primo semestre dell’anno si stima che le imprese editrici subiranno una perdita di ricavi di 403 milioni euro per il crollo degli investimenti pubblicitari e per la contrazione dei ricavi da vendita. È quanto ha sostenuto il Presidente della Federazione editori, la Fieg, Andrea Riffeser Monti, nel corso di un’audizione in Commissione Industria al Senato lo scorso 3 giugno. E le aziende, secondo Riffeser, “dovranno ora sostenere un importante impegno sia per la riorganizzazione delle attività, sia per fare fronte alla necessaria liquidità: si stima siano necessari nei prossimi anni 119 milioni di euro per favorire l’uscita di circa 1.400 persone con il prepensionamento”, questa la prospettiva annunciata.

Si tratta, dunque, di “oneri straordinari da gestire con gli effetti della pandemia, che ha ulteriormente drasticamente ridotto i ricavi e la liquidità delle imprese”. Secondo il presidente degli editori, occorrono pertanto “interventi urgenti anche sulla liquidità delle imprese”. Riffeser ha poi rilevato che gli interventi varati finora dal governo per la gestone della crisi, sia con la legge di Bilancio, sia con le misure urgenti, “consentono di attenuare i pesanti effetti della crisi in atto”.

Poi c’è il settore librario. Secondo le ultime rilevazioni dell’Osservatorio dell’Associazione Italiana Editorisull’impatto del Covid-19, nel 2020 saranno 21 mila i titoli pubblicati in meno e  12.500  complessivamente le novità in uscita bloccate, 44,5 milioni le copie che non saranno stampate e 2.900 i titoli in meno da tradurre. Ad aprile erano già il 70% gli editori che stavano attuando o programmando la cassa integrazione. Per il periodo maggio-agosto è del 42% la percentuale di chi ha deciso di temporeggiare con le uscite, rimandandole ulteriormente. Si punta in modo particolare sull’ultima parte dell’anno con solo l’8% degli editori che immagina di rinviare i titoli di settembre-dicembre, sperando in un recupero natalizio. Ebook e audiolibri tengono: nel primo semestre dell’anno solo l’1% degli editori ha dichiarato di aver riprogrammato al ribasso le uscite dei libri in digitale. Il 10% quelle degli audiolibri. I piccoli e medi editori rischiano di essere decimati:  quasi un editore su dieci (9%) sta valutando la chiusura già nel 2020. Un altro 21% la considera probabile. Si arriverebbe così al 30%. A fine 2020 si stima che la riduzione dei titoli dei piccoli e medi editori sarà del 32%. Significa  21.000 opere in meno, il 54% di tutte quelle che andranno perdute nel 2020. Pesante il calo di fatturato: il 72% dei piccoli e medi editori stima una perdita a marzo superiore al 30%, il 56% superiore al 50%, il 29% superiore al 70%. Le librerie, con il lockdown, hanno avuto in dieci settimane 140 milioni di minor fatturato, pari a circa 45 milioni di euro di mancati utili lordi.

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