Giornalisti esauriti dal Covid.
Hanno lavorato, a marzo, ad aprile, a maggio, con gravi rischi. Con ritmi aumentati. Senza adeguate protezioni. Hanno vissuto la crisi delle aziende editoriali. Hanno subito attacchi: ambienti di governo e altri accusatori hanno cercato di gettare discredito sul loro lavoro, di limitare la libertà di stampa. Hanno assistito alla confusione e alla mistificazione informativa dei grandi social network.
Il 21 per cento dei giornalisti ha avuto i salari tagliati. Il 6 per cento ha perso il lavoro, il 6 per cento ha avuto il lavoro sospeso. Il 4 per cento dei giornalisti ha visto la propria azienda sospendere l’attività, il 2 per cento l’ha vista chiudere.
Il 65 per cento oggi si sente meno sicuro nel suo lavoro.
D’altronde, l’89 per cento delle aziende editoriali ha messo in atto una qualche misura restrittiva dell’attività, a fronte di un forte calo delle entrate durante la prima fase della crisi.
la missione e l’obiettivo
L’ondata del Covid è stata una tragedia anche per il giornalismo mondiale, come per quasi tutti. In quale modo hanno reagito i giornalisti? “Struggling to cope”, lottando per fare fronte. E hanno anche avuto, nella sostanza degli eventi, alcune visioni positive. Domanda: quali sono le tre principali reazioni emozionali o psicologiche alla pandemia? Il 61 per cento ha maturato maggior impegno verso il suo lavoro, comprendendone l’importanza. Il 46 per cento ha dato maggior valore agli amici e alla famiglia. Il 42 per cento ha elaborato un più profondo apprezzamento per la vita. Più in generale, secondo i giornalisti, il Covid ha avuto il merito di precisare meglio la missione del giornalismo, di puntare meglio l’obiettivo sui suoi fruitori.
Di cosa stiamo parlando? Di un’indagine condotta dall’International Center for Journalists (ICFJ) e dal Tow Center for Digital Journalism della Columbia University di New York. Un’istantanea su Giornalismo & Pandemia, avviata alla fine di aprile 2020. Millequattrocentosei intervistati, di 125 Paesi. Giornalisti soprattutto, ma anche dirigenti di aziende editoriali e lavoratori di aziende editoriali in altri ruoli. Dipendenti a tempo pieno soprattutto, ma anche freelance. Due terzi di età fra i 25 e i 49 anni. Il 23% del totale appartenenti a media nati digitali.
“Startling and disturbing”, sorprendente e inquietante, il risultato dell’analisi, descritto dai tre autori, Julie Posetti, Emily Bell, giornalisti e docenti e Pete Brown, ricercatore.
Cominciamo dagli impatti personali che il Covid ha avuto sui giornalisti. Problemi psicologici per il 70 per cento. Problemi economici per il 67 per cento, carichi di lavoro per il 64, isolamento sociale per il 59, rischi di contrarre il virus (54), sfide complesse per portare a termine il lavoro (51), difficoltà a bilanciare lavoro e cura dei figli (42), questioni etiche (30).
I giornalisti sono molto critici verso le loro aziende. Gettati nella mischia della pandemia, non hanno ricevuto supporti tecnici e psicologici adeguati. Il 96 per cento non ha avuto sostegno contro molestie e abusi online, che nel periodo dello scoppio del Covid (secondo 20 intervistati su 100) sono state “molto peggio del solito”. Per l’86 per cento, non sono stati concessi break adeguati fra un turno e l’altro, per l’85 nessun aiuto psicologico. Per il 30 per cento le aziende di lavoro non hanno fornito neanche un singolo pezzo dell’equipaggiamento di protezione dal virus. Per il 45 per cento niente mascherine fornite dall’azienda, per il 49 niente sanificanti per le mani, per il 75 niente guanti. Sostengono i ricercatori: “I datori di lavoro sembrano aver fallito nel loro dovere di proteggere i dipendenti”.
informazioni bacate
Fra le “sfide complesse”, la “disinfodemic”, la disinformazione sul virus, con la quale si è confrontato almeno una volta a settimana l’81 per cento degli intervistati. Chi diffonde informazioni bacate? Secondo il 46 per cento leaders politici e funzionari eletti, per il 25 per cento agenzie governative, per il 23 reti di troll (provocatori) collegati allo Stato. Per il 49 le notizie fasulle provengono da “normali cittadini”. Poi, c’è il settore social. La disinformazione prolifera su Facebook per il 66 per cento degli intervistati, su Twitter per il 42 per cento, su WhatsApp per il 35, su YouTube per il 22 e su Instagram per l’11. Il gruppo di Zuckerberg (Fb, WhatsApp e Instagram), dunque, prevale su tutti, con largo margine. Gran parte degli intervistati afferma di aver segnalato ai social network interessati gli errori, ma nel 46 per cento dei casi senza cogliere risultati apprezzabili.
Capitolo minacce & censure. Quasi il 50 per cento degli intervistati affermano che le loro fonti hanno manifestato paura di ritorsioni se avessero parlato con giornalisti. Il 14 per cento dichiara di essere stato coinvolto in ordini preventivi di non pubblicazione e azioni legali per diffamazione e richieste di rimozione e chiusura forzata di organi di stampa. Stessa la percentuale di chi ha subito pressioni politiche per produrre una copertura favorevole sull’operato del governo o di un leader.
I giornalisti si sono trovati a fronteggiare una serie di paradossi. Esempio, come riuscire a dare conto correttamente e senza sconti dell’operato dei governi durante la pandemia, dipendendo però molto dalle informazioni dei governi stessi? Si è rafforzato il legame fra giornali e giornalisti e le comunità sociali online, ma come consolidare questo legame in un ambiente socialmente distanziato e inquinato da disinformazioni (come abbiamo visto)?
Il giornalismo è entrato nella pandemia e ne uscirà profondamente diverso. Intanto, il 43 per cento degli intervistati ha la sensazione che la fiducia del pubblico in questa fase sia cresciuta.
Ma i giornalisti hanno identificato una serie di nuovi bisogni: apprendimento sulle nuove tecnologie, mezzi per il controllo delle notizie, per comprendere i dati scientifici, nuovi mezzi ed equipaggiamenti.
Se tutto ciò fosse realizzato, concludono gli autori della ricerca, avrebbe un impatto adeguato solo a due condizioni: che il mondo dell’editoria prenda la strada dell’alta qualità e che i governi e le organizzazioni della società civile riaffermino di credere nel valore del giornalismo critico e indipendente”.
Professione Reporter
(nella foto, Julie Posetti, una delle autrici dell’indagine)