di ALBERTO FERRIGOLO

Giovedì 9 ottobre Gedi ha raggiunto un accordo per la cessione del ramo d’azienda delle ex testate locali Finegil. Venduti quindi Il Tirreno, La Gazzetta di Modena, La Gazzetta di Reggio, La Nuova Ferrara alla società Sae Srl, rappresentata da Alberto Leonardis, 54enne imprenditore aquilano che nel 2016 aveva già guidato una cordata di imprenditori locali (Luigi Pierangeli, Cristiano Artoni, Alberto e Luigi Palmerini) che acquistò Il Centro di Pescara per poi rivenderlo due anni più tardi. Finisce un’epoca dell’editoria, con a capo l’ex Gruppo Caracciolo-Espresso.

C’è stata una stagione in cui non solo i giornali hanno viaggiato mediamente bene in edicola, in quanto a vendite, ma hanno persino aperto i battenti. E si sono imposti nel mercato contro ogni previsione. Il là lo ha dato la nascita de la Repubblica il 14 gennaio 1976, poi il gruppo Caracciolo ha varato nel corso degli anni ben 16 testate locali, tra vecchie acquisizioni e nuove iniziative. “Cominciando a rilevare giornali in condizioni disperate, già chiusi o sull’orlo della chiusura”, ha raccontato lo stesso editore, il principe Carlo Caracciolo al professor Angelo Agostini, in un numero di Problemi dell’informazione (1/1999), prestigiosa rivista del Mulino fondata dallo storico Paolo Murialdi nel 1976.

sardegna e alto adige

La partita ha inizio nel 1977 con l’acquisto del Tirreno di Livorno, ex Il Telegrafo, e l’espansione del gruppo in poco tempo è davvero impressionante: apre le danze l’arrivo de L’Alto Adige, seguito il 28 marzo 1978 da varo de Il Mattino di Padova, mentre a giugno approda in edicola La Tribuna di Treviso, nel 1979 La Provincia Pavese. Nell’80 è la volta de La Nuova Sardegna con Il Centro di Pescara e Le Gazzette emiliane già Mondadori (quattro in tutto tra Mantova, Modena, Ferrara e Reggio Emilia); nel settembre 1984 approda in laguna La Nuova Venezia, direttore Lamberto Sechi, e nel 1998 arrivano in portafoglio anche Il Piccolo di Trieste e Il Messaggero Veneto di Udine, un sogno accarezzato e inseguito sin dai primi anni Settanta e di fatto definito almeno dalla metà del decennio Ottanta. Si aggiungono anche Il Corriere delle Alpi di Belluno e La Città di Salerno.

Il tutto sugellato dall’acquisto nel 1980 della Manzoni, la concessionaria di pubblicità che deve sostenere, oltre ai locali, anche la Repubblica e L’Espresso, un’agenzia “che andava male, molto male” – ricorda Caracciolo – e che “aveva un fatturato inferiore ai 60 miliardi e un utile dichiarato di 350 milioni”, ma destinata a diventare ben presto la gallina dalle uova d’oro dell’intero gruppo editoriale di via Po. Tuttavia, ancora nel 1981, “benché il fatturato venisse portato a 80 miliardi, si dovettero registrare perdite per 4 miliardi”. Insomma, “non era il gioiello che è oggi”, chiosa il nobile Principe degli editori puri.

L’avvio all’espansione del Gruppo Caracciolo-Espresso nel settore dei giornali locali (poi Finegil fino al 2017) lo aveva impresso un manager di razza come Mario Lenzi, ex Paese sera, molto legato ad Arrigo Benedetti, e che fin dai primi anni Settanta aveva lavorato al progetto di una catena di testate locali in sinergia tra di loro.

La crisi del 2016

In seguito alla crisi della lettura, delle vendite e dei giornali in generale, nell’ottobre 2016 la Finegil si è liberata dapprima del Centro di Pescara e della Città di Salerno, ceduti a imprenditori del luogo e ora, dopo l’ingresso di Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli, nel Gruppo Espresso che ha acquisito la proprietà di tutti i giornali quotidiani, settimanali, periodici e radiofonici con in testa la Repubblica, John Elkann ha messo in vendita le quattro testate per tentare di scalare il confindustriale Il Sole 24 ore e aggiungerlo al carrello già ricco in suo possesso. Anche se questa operazione comporta una trattativa molto complessa.

Oggi, cioè alle soglie dell’anno Duemila, “siamo un gruppo che ha circa 1.500 miliardi di fatturato – dichiarava sempre Caracciolo ad Agostini –, oggi il nostro Gruppo è una delle più grandi e importanti imprese culturali del Paese. Siamo cresciuti. E parecchio. (…) Pensi alle vicende del Tirreno e della Nuova Sardegna. Quando li comprammo erano in fallimento. Oggi questi quotidiani hanno una redditività comparabile a quella dei giornali locali americani”. E ancora. “Con Il Tirreno partivamo da 36.000 copie vendute. Ora ne vende 90.000. Con La Nuova Sardegna si partiva da 33.000 copie: è arrivata a 64.000”. Ricordava Mario Lenzi, il “mago” dell’editoria locale del Gruppo Caracciolo, in un’altra intervista sempre ad Agostini (Problemi dell’informazione n. 4/2002) che “all’inizio della fortuna dei giornali locali c’è un ragionamento, c’è un progetto che sviluppammo allora, aiutati da una condizione complessiva del Paese, che s’avvertiva mutato per molti aspetti e ancora radicato, però, in certe sue caratteristiche storiche”, perché “la tradizione del giornalismo locale italiano è infatti una tradizione regionale e le testate più antiche sono l’espressione dei piccoli Stati regionali. (…) Quel che abbiamo fatto è stato metterci nel solco dell’Italia dei Comuni”. “La crisi dell’editoria alla metà degli anni Settanta – spiegava ancora Lenzi – imponeva agli editori la ricerca di spazi nuovi, di orizzonti diversi di crescita. C’era il bisogno di rompere quella barriera dei quattro milioni e mezzo di copie vendute alle quali erano incollati tutti gli editori di quotidiani”.

E nei confronti del monopolio informativo delle vecchie testate del territorio, tipo Il Gazzettino di Venezia in Veneto, l’arrivo dei quotidiani veneti ha provocato un vero e proprio terremoto. Si pensi solo alle vicende del Mattino di Padova, che prima ha dato voce a tutta quella miriade di comitati e comitatini cittadini e di quartiere, sulle barricate a rivendicare diritti, spazi, agibilità, e che non avevano avuto mai accesso all’informazione locale; poi al caso “7 aprile”, cioè l’arresto dei professori dell’università, con in testa il professor Toni Negri, accusati di sovversione e contiguità con il terrorismo di Autonomia operaia e persino delle Brigate Rosse: potendosi avvalere di collaboratori giovani, nuovi e freschi di studi universitari, radicati dentro le tante facoltà della città universitaria galileiana più antica del mondo, Il Mattino ha sguinzagliato fin dentro le sedute accademiche i propri cronisti per raccontarne dal di dentro i fatti, gli stati d’animo, sotto la regia attenta, sensibile ed esperta del direttore dell’epoca appena insediato, Giovanni Valentini. Fu un boom di copie, che portò il giornale a radicarsi e consolidarsi, con successo, nel territorio.

agile, fresco e veloce

Ragionava ancora Lenzi: “Alla nascita un giornale locale è spesso un quotidiano di minoranza, contrapposto ad un’altra testata normalmente egemone. È logico e naturale che il nuovo quotidiano sia più agile, fresco e veloce nell’individuazione e nella definizione dei problemi e delle cose che non vanno. Il giornale maggioritario tende invece (per dirla in modo benevolo) ad accontentare tutti”. E ricorda: “Quando venne comperato Il Tirreno, sebbene io sia di quelle parti, i toscani non ci volevano. Lo stesso accadde con i sardi, all’acquisto della Nuova Sardegna. Ma guardandole a distanza di tempo quelle difficoltà sono state anche uno dei fattori di rinnovamento”. Poi ci sono anche le contingenze sociali e politiche che giocano a favore o contro, le stanchezze a lungo andare, le pigrizie, le difficolta, i tagli, che smorzano entusiasmi e tarpano la creatività, con la conseguenza che le redazioni si siedono. O si chiudono. Osservava sempre Lenzi, per fare un esempio: “Il Messaggero racconta una città chiusa dentro la cinta delle mura aureliane. Nessuno racconta la grande realtà industriale della periferia romana verso Sud e verso Ovest”.

Ma Mario Lenzi analizzava anche i fattori politici e culturali: “Ho anche l’impressione che ci sia un clima generale del Paese dove prevale la perdita della capacità di affermare il valore delle autonomie locali. È questo un fattore potente di affievolimento della convinzione giornalistica di potere incidere anche localmente. (…) Quando il Gruppo Espresso si butta nei giornali locali non ha soltanto rischiato. Carlo Caracciolo ha affrontato lunghi anni di passività, prima di arrivare all’utile con i quotidiani locali, così come aveva fatto con la Repubblica. La combinazione di allora è difficilmente ripetibile. Una situazione di fermento del Paese, l’intuizione di andare a riscoprire una tradizione vecchia di secoli come quella dei Comuni, una innovazione tecnologica potentissima, ed un editore disposto ad assumersi il rischio nel tempo”. E rifletteva ancora agli inizi degli anni Duemila: “Ora sono cambiate le aziende. Ora un amministratore deve rispondere trimestralmente ai suoi azionisti. Come fa a prendersi un rischio che dura anni?”. Già.

E venendo all’oggi, meglio forse tagliare. Ristrutturare. O, appunto, vendere… Se, come pare, l’editoria non è anche passione, scommessa, ma solo convenienza.

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