di LUCIANA BORSATTI

Un mestiere pericoloso. Questo è il giornalismo per tanti professionisti dell’informazione che rischiano anche la vita per raccontare le guerre, i conflitti sociali, le trame della criminalità organizzata e il malaffare dei potentati politici ed economici. Possono incorrere in minacce, violenze fisiche, ma anche in cause civili e procedimenti penali infondati, destinati a risolversi dopo qualche anno in proscioglimenti e archiviazioni, ma il cui primo scopo è scoraggiare il giornalista dall’indagare verità scomode e renderle note ai cittadini. E i più esposti sono i freelance, che lavorano senza la copertura di un editore impegnato a farsi carico dei rischi e delle conseguenze giudiziarie e patrimoniali del loro lavoro.

I numeri nel mondo sono scoraggianti: secondo l’Unesco – che il 9 e 10 dicembre celebra con una conferenza online la Giornata mondiale contro l’impunità per i crimini ai danni dei  giornalisti (IDEI) – negli ultimi undici anni sono stati 930 i giornalisti uccisi per aver cercato di garantire ai cittadini il loro diritto ad essere informati. Fatto non meno grave, sono solo uno su dieci i casi approdati ad una sentenza di condanna nei confronti dei responsabili. Se ne è parlato appunto nella due giorni organizzata dall’Unesco e dal governo olandese all’Aja, iniziativa che unisce  il World Press Freedom Day e l’International Day to End Impunity for Crimes against Journalists, che ricorrono rispettivamente il 3 maggio e il 2 novembre, ma che quest’anno hanno avuto una celebrazione solo virtuale a causa della pandemia. Il tema della World Press Freedom Conference  – che si svolge in presenza e online – è “Giornalismo senza paura o favori” (frase coniata a fine Ottocento dal fondatore dell’attuale New York Times) e il dibattito si concentrerà sul ruolo di ciascuno, e non solo dei giornalisti, per mantenere la stampa libera, sicura e indipendente.

italo-ucraino

Il fenomeno  dell’impunità riguarda direttamente anche l’Italia, come ha dimostrato solo poche settimane fa il fatto che il processo d’appello a Milano per la morte nel maggio 2014 di Andrea Rocchelli –  il giovane fotoreporter di Pavia ucciso da colpi di mortaio, mentre documentava le violenze sui civili durante il conflitto del Donbass – ha scagionato l’unico imputato, l’italo-ucraino Vitaly Markiv, che la Corte d’assise di Pavia aveva condannato, nel luglio 2019, a 24 anni di carcere. Sia chiaro, chi scrive non si schiera né con gli innocentisti né con i colpevolisti che si sono contrapposti per tutta la durata dei processi di primo e di secondo grado: a decidere deve essere solo la magistratura, e fra un paio di mesi si potranno leggere le motivazioni dell’assoluzione decisa dai giudici di Milano, emessa il 3 novembre scorso. Resta però il fatto che anche il caso di Rocchelli è finito per aggiungersi ai tanti casi di giornalisti per la cui morte non si è ancora trovato né condannato alcun colpevole.  Morti rimaste impunite, dunque, in contesti di guerra e di conflitto all’estero. Impunite come lo sono state in Italia anche le uccisioni di altri colleghi vittime della criminalità organizzata, e ricordati nell’archivio online Cercavano la verità di Ossigeno per l’Informazione.

Ma forse il caso dei reporter uccisi all’estero in contesti di guerra e conflitto è diverso da quello dei giornalisti colpiti  negli scorsi decenni dalle mafie o dal terrorismo in patria? A chiederselo è stato ancora una volta Ossigeno, nel dossier pubblicato proprio in occasione dell’appello per “Andy” Rocchelli e intitolato Guerre, giornalisti uccisi e impunità. Un dossier che raccoglie tutte le cronache del processo fino alle prime udienze dell’appello (le ultime si trovano sul sito di Ossigeno per l’Informazione), fornendone quel resoconto completo che la maggior parte dei media italiani ha trascurato di fare. E che pone nel contempo una questione più generale: come, con quali difficoltà e fino a che punto l’autorità giudiziaria di un paese abbia il dovere e la possibilità di accertare le responsabilità penali per l’uccisione, all’estero, di un cronista che svolge il suo lavoro in aree di guerra e di conflitto.  «Di solito – si legge ancora nel dossier – l’assassinio di civili e di giornalisti in zone di guerra è trattato come un danno collaterale, spiacevole ma inevitabile e in quanto tale non punibile. Altre volte, più raramente, diventa oggetto di indagini e inchieste giudiziarie e dà vita a un processo che subisce ogni sorta di ostacoli: depistaggi, insabbiamenti, veti politici o diplomatici, segreti di stato… Raramente i giudici accertano responsabilità individuali perseguibili. Lo dice, ad esempio, il triste e deludente andamento dei procedimenti avviati in Italia per scoprire i responsabili dell’uccisione di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin, di Antonio Russo, Vittorio Arrigoni e di molti altri giornalisti». 

civili disarmati

Il caso di Rocchelli si è così recentemente aggiunto alla lista delle uccisioni impunite. L’assoluzione con formula piena di Vitaly Markiv, 31 anni, italo-ucraino, ex soldato volontario della Guardia Nazionale ucraina, ha fatto certamente esultare lui e i suoi sostenitori che avevano seguito il processo nelle aule giudiziarie e in Ucraina – fra i quali le stesse autorità di Kiev, che avevano anche esercitato pressioni sull’Italia per un rovesciamento della sentenza di primo grado. E i giudici potrebbero anche avere tenuto conto (ma lo spiegheranno appunto le motivazioni) di tesi contenute nel documentario The Wrong Place  di Cristiano Tinazzi, frutto di un’inchiesta giornalistica che ha messo in dubbio gli assunti della condanna in primo grado. Condanna che attribuiva a Markiv la responsabilità non di avere sparato direttamente a Rocchelli e ai suoi due colleghi – il russo Andrej Mironov, morto insieme a lui, e il francese William Roguelon, rimasto gravemente ferito – ma di aver segnalato la loro presenza e posizione a chi sferrò l’attacco mortale con colpi di mortaio.

Comunque si concluda questa vicenda giudiziaria (la cui ultima tappa potrebbe essere un terzo giudizio in Cassazione), resta il fatto – sottolineato nelle loro repliche, in sede di appello, dai rappresentanti dell’accusa e delle parti civili – che non è giustificabile l’uso delle armi contro persone ben distinguibili come civili disarmati, in questo caso giornalisti. Le operazioni militari avevano del resto già messo in pericolo gli abitanti della zona, le loro abitazioni, un ospedale. E Rocchelli e i suoi compagni, quando furono uccisi, si recavano in quella zona proprio per accertare tali abusi contro i civili e documentarli per farli conoscere al pubblico: il compito dei giornalisti. L’assoluzione di Markiv, dunque, invece che chiudere il caso per sempre in un archivio, dovrebbe spingere l’opinione pubblica a chiedere che si torni a cercare, seguendo altre strade, la verità sui crimini anche contro i reporter che sono stati compiuti in quel conflitto.

Come sottolinea l’Unesco, quando gli attacchi ai giornalisti rimangono impuniti vi sono effetti negativi che investono tutta la società: i cittadini perdono fiducia nel sistema giudiziario e chi ha commesso quei crimini si rafforzano nella convinzione di poterli ripetere senza conseguenze. E così il tipo di notizie che non vengono date “è proprio quello che il pubblico più avrebbe bisogno di conoscere”. È anche per questo che la sicurezza e incolumità dei giornalisti è tra gli obiettivi dello European Democracy Action Plan nato per rafforzare la democrazia negli Stati membri. Decine di organizzazioni non governative, fra le quali anche Ossigeno, hanno presentato nei giorni scorsi al Parlamento europeo una proposta di raccomandazione per rafforzare la sicurezza dei giornalisti e arginare il fenomeno delle querele infondate, che in inglese sono chiamate Strategic Lawsuits against Public Participation (SLAPPs): perché appunto solo una  informazione libera e completa permette una piena partecipazione dei cittadini alla cosa pubblica.

(per concessione di Confronti)

(nella foto, il fotografo Andy Rocchelli)

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