Il pomeriggio del 29 luglio è stato un brutto pomeriggio a Repubblica. Il giornale sta per essere trasferito da Gedi a Gnn, all’interno dello stesso gruppo, dove già si trovano la Stampa, il Secolo XIX e nove testate locali. Per preparare il passaggio è arrivato a tutti i giornalisti del quotidiano fondato da Eugenio Scalfari un documento di richiesta di notizie personali: fra l’altro, la propria “origine razziale o etnica”.

Grida di dolore, assemblea infuocata. Ritiro del provvedimento e addirittura, il 30 luglio, una spalla di prima pagina del direttore Maurizio Molinari. Un articolo di spiegazione tecnica e di impegno affinché non succeda più nulla del genere.

assemblea immediata

La premessa del documento spiegava che dovendo spostare la testata da una società all’altra, era necessario per i giornalisti anche lo spostamento dei loro dati sensibili. E quindi la richiesta di rispondere a domande su: appartenenza a un partito politico, a un sindacato, quale origine razziale o etnica, stato di salute, convinzioni religiose. Nulla di mai accaduto prima. I giornalisti di Repubblica non credevano ai loro occhi. Il Comitato di redazione ha immediatamente convocato l’assemblea. E’ stato informato il direttore, è stata coinvolta l’Azienda. Nel corso dell’assemblea è arrivata la notizia che il documento veniva ritirato.

Per ottenere informazioni dettagliate si è dovuto attendere il mattino dopo e leggere il pezzo in prima di Molinari, intitolato “Quando le parole sono malate”. “Per un errore burocratico -scrive Molinari è stata recapitata per mail a ogni giornalista un’informativa sulla privacy nella quale si elencavano i dati personali sensibili che sarebbero potuti essere oggetto di trattamento. L’intervento dei redattori e dell’azienda ha consentito di identificare e correggere in tempi rapidi una procedura che ancorché pensata per tutelare i diritti dei lavoratori e redatta in osservanza delle norme sulla privacy appariva il suo esatto contrario. Un errore, appunto”.

parole malate

Ma Molinari va avanti, dice che “si è voluto comprendere da dove arrivava in un documento sulla privacy l’agghiacciante definizione ‘origine razziale o etnica’ riferita a una delle categorie dei dati personali sensibili passibili di trattamento. Come fosse possibile che a 83 anni dall’infamia delle leggi razziali e a 76 anni dalla sconfitta del nazifascismo la parola razza continuasse a inquinare il nostro linguaggio”. Ebbene: “Una delle parole più malate della Storia d’Europa compare nel testo del regolamento Ue 2016/679, che al comma 1 dell’articolo 9 parla di ‘origine razziale o etnica’ con il risultato di veicolarla nel nostro ordinamento con il decreto 101 del 2018. Ovvero nei testi del Codice Privacy della Repubblica italiana si parla di razza, mentre la Francia nel 2018 e la Germania nel 2020 l’hanno abolita dalle loro Costituzioni”. Conclusione: “Ci batteremo per espellerla dai testi ufficiali Ue come dalle nostre leggi, incluso l’articolo 3 della Costituzione”.

Professione Reporter

(nella foto, Maurizio Molinari)

1 commento

  1. Razza umana non bastava? Qualcuno crede ancora alla privacy? Mi ricorda la carta verde che bisogna compilare per sbarcare negli Stati Uniti e se la davi incompleta ti mandavano all’immigration office. E questo prima di Trump e ora?

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