di ALBERTO FERRIGOLO
“Non c’è dubbio che la legge istitutiva dell’Ordine professionale dei giornalisti meriti una profonda revisione. La legge è del 1963, sono passati parecchi decenni, ma in questi decenni la professione è molto cambiata”.
In questa intervista, Giancarlo Tartaglia, oggi direttore generale della Fondazione sul giornalismo Paolo Murialdi, entrato alla Federazione nazionale della stampa nel 1973, direttore dai primi anni ’80 fino all’anno scorso, per quasi quarant’anni, si dice d’accordo con il professor Enzo Cheli sulla necessità di una riforma dei criteri e delle norme che fissano l’appartenenza all’Albo. Precisa: “Nel 1963 quando fu approvata la legge sull’Ordine, i giornalisti lavoravano nella carta stampata, quotidiani, periodici, agenzie, nella radio e nella tv, che erano gli strumenti di comunicazione di massa dell’epoca. E tutti i giornalisti avevano un rapporto di lavoro subordinato. Questo era il quadro che ha determinato la nascita di quella legge. Tant’è vero che un aspetto presente in altri ordinamenti professionali, cioè quello del tariffario, non esiste nella legge istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, per il semplice motivo che essi erano strutturalmente lavoratori subordinati. Dopo di che, abbiamo assistito a un’evoluzione tecnologica tale che ha aumentato gli spazi e gli strumenti comunicativi sino ad oggi, dove i social consentono una partecipazione di massa alla comunicazione. Questo modifica anche la professione, fermo restando che essa è stata modificata all’interno dallo stesso atteggiamento degli editori”.
Cosa vuoi dire, faccia un esempio.
“L’Ordine dei giornalisti, a differenza degli altri ordini professionali, prevede la divisione della categoria in professionisti e pubblicisti. Due categorie che sono la fotografia di quello che c’era. Allora, il professionista era chi lavorava alle dipendenze di un giornale con un rapporto quotidiano, il pubblicista colui che collaborava con un giornale con una certa frequenza, con continuità, ma che non era in organico alla testata. L’elemento fondamentale di questa distinzione era che in entrambi i casi la legge prevedeva e prevede che ci fosse una prestazione giornalistica non occasionale. Quindi, anche per il pubblicista il requisito della continuità. Da questo punto di vista la legge è stata alterata. Nel senso che gli editori l’hanno forzata, perché hanno cominciato ad assumere o utilizzare giornalisti pubblicisti che non erano tutelati dal contratto e ciò ha consentito loro di pagarli meno dei professionisti. Il contratto nasce nel 1911 ed è quello che sostanzialmente regola il rapporto di lavoro dei professionisti fino al 1963”.
Hai però descritto un po’ quello che accade anche oggi, nulla di nuovo.
“Certo, ma nel senso che allora c’era una sorta di legge di Gresham, moneta cattiva scaccia moneta buona. Dovendo scegliere tra un pubblicista e un professionista e dovendo pagare di più il professionista, si optava per il pubblicista. Questa era la logica dell’editore. E ciò ha innescato anche nel sindacato una logica favorevole alla regolarizzazione dei pubblicisti. Tant’è vero che il contratto di lavoro vigente mette sullo stesso piano sia i professionisti che i pubblicisti. Hanno tutti lo stesso trattamento economico, normativo, assistenziale e previdenziale. Talché i pubblicisti sono entrati negli anni ’80 all’Inpgi, mentre prima erano fuori. Il processo sindacale è avvenuto soprattutto attraverso il contratto collettivo, equiparando i due trattamenti, per fronteggiare appunto il tentativo degli editori di utilizzare pubblicisti al posto dei professionisti e pagarli meno”.
Torniamo all’Ordine. Un tagliando è necessario, ma come farlo?
“La legge del ‘63 ha tuttavia una modifica abbastanza recente, che riguarda proprio i pubblicisti. La Cassazione ha ritenuto che la legge istitutiva dell’Ordine distinguendo tra giornalisti professionisti e pubblicisti, quest’ultimi non fossero giornalisti. Perciò l’utilizzo redazionale di pubblicisti che non erano giornalisti ha determinato l’esercizio abusivo della professione. Se poi un’azienda assumeva un pubblicista e non lo pagava, nel momento in cui quel posto di lavoro si risolveva, il pubblicista poteva far causa all’azienda e il magistrato in base alla sentenza gli poteva riconoscere il trattamento economico del pubblicista non reintegrandolo nel posto di lavoro, in quanto l’esercizio della professione era stato abusivo. Ora la norma della legge è stata modificata, tant’è che adesso c’è una equiparazione tra giornalisti professionisti e pubblicisti, dal punto di vista legislativo e contrattuale. Tutto ciò però crea un problema: se hanno lo stesso trattamento economico e normativo, se non c’è distinzione tra professionisti e pubblicisti, perché per diventare professionista occorre un percorso di 18 mesi di praticantato, mentre il pubblicista non lo segue?”.
Vuoi dire che c’è una discriminazione?
“Significa che occorre un’ulteriore modifica della legge istitutiva, perché questa distinzione oggi non ha più senso. Anche il professor Cheli lo riconosce, nell’intervista a Professione Reporter. Credo che si debba fare una modifica di legge che equipari queste due figure in una unica, che è poi quella del giornalista, che deve avere un percorso formativo obbligatorio uguale per tutti e che risponde alla deontologia professionale”.
Quando si parla dell’Ordine gli si attribuiscono spesso prerogative che invece sono espressamente sindacali. Però le questioni si presentano intrecciate, perché derivano dalla legge del ’63?
“È così, ma non sono assolutamente la stessa cosa. L’Ordine presiede agli aspetti deontologici, il sindacato agli aspetti contrattuali. Per semplificare, la Federazione della stampa si occupa dei diritti dei giornalisti, l’Ordine dei loro doveri”.
Sull’etica del giornalismo e il rispetto della deontologia, si dice che l’Ordine o non interviene mai o interviene solo in casi eclatanti, ma senza mai emettere vere e proprie sanzioni. È così?
“Questo è un problema ed è anche il nodo di tutto il discorso fin qui fatto. Di fondo il problema esiste ed è quello deontologico. Facciamo un passo indietro: perché nasce l’Ordine? Nasce con lo scopo di dire che il giornalista iscritto all’Albo è tenuto al rispetto delle norme di deontologia professionale. Il che significa che il lettore utente, quando legge l’articolo scritto dal giornalista, sa che il giornalista è tenuto al rispetto delle norme conseguenti. Possiamo anche dire che la legge istitutiva dell’Ordine non è a tutela del giornalista, bensì del lettore. Serve a tutelare il cittadino, perché certifica che chi scrive un articolo, se iscritto all’Ordine, risponde alla sua deontologia”.
Però accade che giornali e giornalisti, spesso, scrivano qualunque cosa.
“Non c’è dubbio. Ma allora dobbiamo distinguere e, forse, va detto che il funzionamento attuale dell’Ordine ha un deficit per quanto riguarda la deontologia e quindi occorre un intervento che migliori le norme legislative. Qui si apre un capitolo più ampio, nel senso che il giornalista è tenuto al rispetto della deontologia quando fa il giornalista, ma non quando fa l’opinionista. Perciò dobbiamo distinguere, perché l’articolo 21 della Costituzione non ha niente a che fare con la professione giornalistica”.
In che senso?
“Nel senso che l’articolo 21 dice che ‘tutti possono esprimere con qualsiasi mezzo la propria opinione’, perciò si tratta d’un diritto che appartiene a tutti coloro che stanno sul territorio italiano. Inizialmente, alla Costituente, Andreotti presentò un emendamento in cui si diceva ‘tutti i cittadini italiani’, dopodiché quell’emendamento decadde, per cui oggi il diritto di esprimere la propria opinione appartiene a tutti. Non a caso, quando fu introdotta la legge istitutiva dell’Ordine quella legge fu impugnata davanti alla Corte Costituzionale perché si disse in contrasto con l’articolo 21 della Costituzione, ma la Corte sentenziò: non è così, perché articolo 21 e legge dell’Ordine sono due cose diverse. Cioè, secondo l’articolo 21 tutti possono esprimere le proprie opinioni nell’ambito delle leggi dello Stato, ma la legge istituiva dell’Ordine dice che chi fa il giornalista è il cronista, non chi esprime le proprie opinioni. Chi fa la cronaca di un avvenimento che vede, a cui assiste. Ed è quando fa la cronaca di un avvenimento che deve rispondere ai canoni deontologici, per i quali ci sono tutte le Carte dell’Ordine, sui minori, sull’economia, eccetera, che dicono come ci si deve comportare nel momento in cui si fa cronaca, non quando si fa opinione”.
Però più spesso capita che si chieda l’intervento dell’Ordine proprio per un giornalista che ha espresso delle opinioni.
“Ma gli opinionisti, giornalisti possono anche non esserlo. Stefano Folli, ad esempio, è un giornalista, ma Ernesto Galli Della Loggia non lo è. Ebbene, sia Folli che Galli Della Loggia scrivono sui giornali opinioni. Fermo restando il rispetto delle norme di Stato, uno può scrivere le opinioni che vuole. Quindi può essere di estrema destra, di estrema sinistra, ma quella è un’opinione. L’Ordine non può intervenire su chi esprime opinioni, ma deve intervenire su chi fa la professione di giornalista, che è la professione del cronista, che riferisce i fatti ai quali ha assistito”.
Ma come la mettiamo con il proliferare delle fake news o delle chiacchiere televisive?
“Questo è un altro grosso problema. In effetti, per le fake news, che sono il frutto della moltiplicazione dei canali comunicativi, per cui noi oggi viviamo immersi in un flusso comunicativo h24, il problema si pone. Ma a mio avviso, il tema è: come distinguere le fake news. E il giornalista che ha il titolo di iscrizione all’Albo deve rifiutarsi di pubblicare notizie che non abbia verificato. Può sembrare utopistico, ma va tenuto presente che proprio l’appartenenza all’Ordine professionale garantisce l’autonomia della professione, lo prevede la legge sull’ordinamento professionale. Ma un lavoratore subordinato, in base al nostro codice civile, è tenuto al rapporto fiduciario con il datore di lavoro: in questo c’è una contraddizione”.
I giornali si vendono sempre meno…
“Oggi pensano che si vendano di meno perché c’è la concorrenza del web e dei social. Ma è abbastanza errato. I giornali si vendono meno perché vengono fatti copiando i social. E se una notizia arriva sui social e l’indomani mattina la si legge sul giornale, allora non c’è bisogno del giornale. Il punto è proprio questo: quel che i giornali dovrebbero fare è il controllo delle notizie e certificare la notizia, la notizia vera. Il lavoro dei giornali non è riprendere notizie dai social, ma controllarle. E per far questo i giornali avrebbero bisogno di più giornalisti non di meno, come purtroppo accade. La responsabilità è soprattutto degli editori che vogliono fare i giornali con meno giornalisti, meno spese. Così non si fanno buoni giornali, ma giornali pessimi, che i cittadini non comprano”.
Qual è la missione del giornalismo? È cercare la verità? E tutti i giornalisti cercano la verità allo stesso modo? Chi non cerca la verità non è giornalista?
“Sulla verità ho una visione personale. Sono kantiano: non esiste la verità, la verità è come io la colgo. Quindi ci sono tante verità. Molto spesso mi capita di leggere cronache sui giornali di avvenimenti ai quali ho partecipato che a mio giudizio non corrispondono a quanto visto e assistito. La verità in sé è quasi inconoscibile, come il noumeno kantiano: conosciamo il fenomeno, non la verità in se stessa. Detto questo, il giornalista deve dire quello che lui vede, attenersi a quel che vede con i suoi occhi o a ciò che è riuscito a controllare”.
E un giornalista che cerca la verità può essere deputato o anche portavoce? O dovrebbe autosospendersi dall’attività per il periodo in cui svolge quest’occupazione?
“Credo che il giornalista, e non sto parlando dell’opinionista, ma del cronista, svolga una funzione così delicata che per me non dovrebbe essere iscritto ad un partito e gli dovrebbe essere inibita la partecipazione ad attività politiche. Il punto è che abbiamo una visione sbagliata del giornalismo, perché storicamente nasce con la libertà di stampa, il ’48, il Risorgimento, come libertà d’opinione. La libertà di stampa è nello Statuto Albertino e Mazzini, per esempio, ha fondato decine e decine di giornali come attività di opinione. il giornalismo come attività commerciale nasce negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento. Inizialmente tutti i giornali erano espressione di uomini politici e servivano per indirizzare l’opinione pubblica. Questo è il vizio di partenza. Quindi, per rispondere, al giornalista dovrebbe esser vietato partecipare alla vita politica”.
Pensando a una proposta tecnica di modifica dell’Ordine, da dove si dovrebbe partire per renderlo più aderente alla moderna professione?
“Da una parte eliminando la distinzione tra professionisti e pubblicisti, poi individuando l’esercizio della professione in ogni strumento di comunicazione. Laddove uno svolge attività giornalistica non occasionale, come dice la legge, qualunque sia il mezzo e il modo di espressione, dev’essere nell’ambito dell’ordinamento professionale dei giornalisti. Oggi ci sono alcune figure che sono fuori, ma che in realtà sono dentro. Abbiamo sempre detto che l’impaginatore non scrive la notizia, però la impagina e nel momento in cui lo fa automaticamente opera una selezione su dove collocarla e ciò rientra nel campo del giornalismo. Allora ciò che vale per l’impaginatore vale per tutta l’attività dei social come strumenti di comunicazione di massa. Eliminare questa distinzione, e tutti coloro che svolgono attività non occasionale con qualsiasi mezzo devono rientrare nella sfera dell’Ordine, in quanto sottoposti al controllo delle norme deontologiche”.
Di quali giornalisti ha bisogno una democrazia avanzata?
“Il pluralismo dell’informazione è l’aspetto fondamentale. Perciò lo stato deve garantirlo, tenendo presente che oggi viviamo in una bolla informativa h24. La matrice di base dell’informazione è sempre la carta stampata e fa da riferimento per tutti. Radio Radicale, Prima Pagina, Terza Pagina su Radiotre, rassegne stampa e tv, agenzie e web. Ritengo che la carta stampata non morirà perché dà ancora l’indirizzo, è la guida e l’agenda dell’informazione. Questo lo deve capire chi fa le leggi, il governo, ma lo devono capire anche gli editori”.
E il Parlamento come si dovrebbe comportare?
“Dovrebbe riformare l’Ordine e anche rivedere tutta la legislazione al riguardo. Ad esempio la legge 416 dell’81, che è la legge guida che riforma il sistema dell’informazione in Italia, è ormai obsoleta. È stata la prima legge che ha introdotto nel nostro ordinamento una misura antitrust che prevedeva il divieto di concentrazione di testate stampate su carta, divise in Nordest, Nordovest, Centro, Sud e isole, ma oggi non ha assolutamente più senso questa suddivisione con la moltiplicazione dei mezzi di comunicazione. Tutta quella legge va rivista da cima a fondo”.
Come fa il Parlamento a far in modo che ci siano buoni giornalisti?
“Come si fa a essere buoni cittadini? C’è la Costituzione. Certo, poi una regola può essere violata, allora bisogna intervenire sulla violazione delle regole, rafforzando il potere d’intervento dell’Ordine in quanto tutore dell’applicazione della deontologia professionale. Tenendo presente che quando parliamo di deontologia professionale non parliamo di opinioni ma di cronaca”.
(nella foto, Giancarlo Tartaglia)