di VITTORIO ROIDI
Quotidiani che tagliano le redazioni, edicole che chiudono, precariato che dilaga, cronisti aggrediti. Mentre impazzano le fake news è tempo di studiare come si può salvare il giornalismo: forse con una legge nuova che sostituisca quella vecchia e bistrattata del 1963? Lo abbiamo chiesto a Ferruccio de Bortoli, per due volte direttore del Corriere della Sera, una delle personalità più stimate e autorevoli del nostro settore.
de Bortoli, deve intervenire il Parlamento?
“Mi accontenterei se dedicasse una sessione per discutere del rapporto fra il mondo dell’informazione e gli altri poteri, se stimolasse le forze politiche a dire, anche con delle critiche, qual è secondo loro il valore dell’informazione in una democrazia rappresentativa, se lo ritengono un valore o un male necessario. Credo che scopriremmo delle amare verità, soprattutto una perdita della coscienza chiamiamola repubblicana e costituzionale, cosa significhi l’articolo 21 per creare un’opinione avvertita e responsabile, per far sì che i cittadini siano tali e non sudditi o naufraghi della Rete, come qualcuno vorrebbe. Un’intera giornata dedicata a capire quanto è importante una buona informazione. Per poi rispondere a una seconda domanda: ma la buona informazione per voi è tale anche quando dice cose sgradite? E ad una terza domanda: ma l’informazione è necessaria affinché il paese veda ciò che sta dietro la scena e fornisce – come diceva Einaudi – degli ingredienti non avariati, non viziati, per formarsi un’opinione libera, critica, che non si accontenti di spiegazioni superficiali e che esca dal semplicismo del quale siamo tutti prigionieri, che ha portato durante la pandemia all’esplosione del fenomeno no vax e alla negazione della competenza e dello studio?”.
Se deputati e senatori fossero sensibili a questi argomenti in che modo potrebbero intervenire?
“Se il Parlamento volesse intervenire, nel rispetto della Carta costituzionale, dovremmo interrogarci, perché fra le forze politiche esistono delle ambiguità. Da qualcuno, anche nel 2021, l’informazione è guardata spesso come un intralcio, come qualcosa che va addirittura contro il bene comune della società, mentre non abbiamo mai compreso e spiegato fino in fondo, anche noi giornalisti, che dove non c’è trasparenza, non c’è diritto di cronaca, non c’è diritto di critica, il merito non si afferma, i giovani vengono allontanati, le donne vengono represse (se non peggio), la legge non viene rispettata, i soprusi sono la regola, la criminalità spesso la fa da padrona. E’ vero che esistono dei costi dell’informazione, è vero che esiste la cattiva informazione e che anche noi commettiamo degli errori, nel momento in cui nel mondo digitale la tempestività ha fatto premio sull’accuratezza e l’autorevolezza. Mi piacerebbe che si parlasse anche dei costi della non informazione, cioè dei danni che sono stati causati perché la società non era stata illuminata con un’informazione corretta, onesta, attendibile, per cui in alcuni settori della società i diritti non sono stati garantiti, né affermati anzi sono stati calpestati nell’indifferenza di tanti”.
In questa ipotesi ottimistica, occorrerebbe però individuare le risposte da dare, quali?
“Partiamo dalle legge professionale. Io non avrei il timore di discuterla. Il problema dell’accesso ad esempio. Oggi c’è il praticantato, ci sono le scuole, i master che sono a pagamento. Con la nascita della Rete anche gli stessi utenti sono diventati produttori di informazione. Questo fa dire ad alcuni che i giornalisti non servono più. Molti di quelli che sono in Rete e falsamente credono di vivere gli avvenimenti in diretta hanno invece bisogno di una intermediazione professionale. Solo che noi dovremmo accettare di mettere in gioco le nostre regole”.
Dobbiamo includere fra i giornalisti gli operatori che lavorano nella Rete?
“No. Dobbiamo uscire da una rappresentazione pubblica in cui la categoria tende a difendersi, aggrappata alla corporazione e al passato. In realtà con la rivoluzione digitale è accaduto che c’è sempre più bisogno di buon giornalismo. I giornali cambieranno, non so se in questa forma sopravviveranno. Noi dobbiamo fare un gesto nel quale diciamo che le regole non sono più quelle del secolo scorso. Giusto difendere e valorizzare i master, ma potremmo ad esempio fare una commissione che ogni anno scelga fra coloro che lavorano, che sono bravi, che si sono dimostrati molto attenti, e garantire loro un’inclusione. Paghiamo noi il loro costo per accedere alla professione. Ogni anno diamo un premio, una possibilità di fare i master gratuitamente”.
La professione, qualcuno la vuole ancora abolire, senza rendersi conto che si scenderebbe più in basso. Liberi tutti di lavorare significa una qualità inferiore. O no?
“Non possiamo difendere la professione escludendo gli altri, questa è corporazione. Invece dobbiamo riconoscere che si può diventare giornalisti anche sul campo, con passione e onestà. Sarebbe una prova di apertura, di modernizzazione. Ad esempio la distinzione fra professionisti e pubblicisti non ha più senso. E’ una differenziazione sulla quale noi dobbiamo interrogarci. La nostra legge professionale è un valore, dobbiamo difendere la professione, ma aggiornandola. Dovremmo accettare di mettere in gioco le nostre regole professionali. Adesso quanti professionisti abbiamo fatto? Abbiamo allargato tantissimo. Mentre io non vorrei perdere giovani che amano il mestiere, che lo fanno non pagati, senza avere un editore alle spalle, che vanno in giro a raccontare il mondo. A costoro potremmo offrire ogni anno la possibilità di entrare, dimostreremmo che la professione è ancora centrale ma non è fatta da una corporazione aggrappata alla carta e che pensa di conservare privilegi che non hanno più senso. Perché quello che sta accadendo nelle redazioni è una frattura, una divisione (di cui parliamo poco) tra i millennials e quelli della nostra generazione, che è forte e drammatica. Per questo, dicevo, noi dobbiamo autotassarci e dire che vogliamo che ogni anno ci siano mille persone che entrino, per dimostrare che la nostra non è una professione chiusa”.
L’altro versante delicato da esaminare è però quello dell’etica.
“Certo, ma se noi consentiamo di entrare a chi ha lavorato sul campo e che ha i requisiti, questo ci proietta sul futuro ci porta nuove visioni, nuove idee, capacità tecnologiche. Il tema principale da discutere è quello dell’accesso, poiché sembriamo sempre impegnati a difendere una professione novecentesca, mentre la nostra è un’attività che sarà invece sempre importante, ma della quale dobbiamo dare un’immagine nuova, moderna. Quanto al tema dell’etica dovremmo cominciare a discutere di alcune forme di divismo giornalistico, schierato. Non metto in discussione il giornalismo di opinione, ma quello talmente schierato da guardare i fatti e raccontarli solo con gli occhi del proprio schieramento. Abbiamo avuto giornalisti ideologici, con una loro idea, ma con una precisa deontologia nel racconto dei fatti. Io vorrei che al nostro interno si aprisse una discussione sulla questione: possiamo e dobbiamo anche avere delle nostre idee, ma i fatti vanno trattati con professionalità, con senso della giustizia, con senso delle proporzioni e anche con il senso di appartenenza. Dicendo: noi siamo prima di tutto dei cronisti, poi anche degli interpreti della realtà, ma siamo o cronisti corretti che danno voce alle persone che meritano di avere voce, che sanno guardare i fatti con senso critico, accompagnati dal dubbio se quella sia una versione corretta o se non sia giusto avere più versioni per potersi fare un’idea più compiuta e più approfondita”.
In Inghilterra hanno abolito la Plaint complaint commission e cambiato l’organismo che controlla la deontologia, senza però arrivare ancora a risolvere il problema. Gli inglesi campioni del liberalismo non hanno mai voluto una legge, ma la soluzione non l’hanno trovata.
“Apparteniamo a sistemi diversi, loro hanno la Common law. Tra l’altro la nostra legge professionale è nata nel ricordo di cosa significava una corporazione giornalistica durante il fascismo, ed era anche una tutela per una democrazia giovane come la nostra. Io pur essendo critico nei confronti del nostro Ordine penso comunque che sia necessario, a patto che sappia riformarsi, che metta l’etica, la credibilità al primo posto. Cosa che oggi non avviene purtroppo. Se si pensa al tema della deontologia: come è possibile che il Consiglio di disciplina della Lombardia abbia nove membri, come quello del Molise? E poi alla fine c’è questa idea che la colleganza vince sempre. Siamo come il Consiglio superiore della magistratura, ed ecco che la magistratura ha una perdita di credibilità e di consenso che dovrebbe preoccupare. Non siamo più visti come una funzione della democrazia, ma come una sorta di potere che si muove secondo proprie logiche. Dobbiamo cercare di uscire da questa logica corporativa e dimostrare al pubblico la necessità di avere un’informazione libera e corretta”.
(nella foto, Ferruccio de Bortoli)