di ALBERTO FERRIGOLO
“È un po’ il segno dei tempi, perché è successo anche nelle ultime elezioni amministrative, si tratta di mondi diversi e distinti, questo è chiaro, ma vale comunque la stessa analisi: c’è uno scollamento tra tutto ciò che è istituzione, sia l’Ordine o siano i partiti. È un qualcosa che fa parte della nostra epoca a tutti i livelli, della nostra società, e rientra nel più generale tema della crisi della rappresentanza. Sono in crisi i partiti, sono in crisi i sindacati, sono in crisi dunque anche gli Ordini professionali”.
Commenta così Agnese Pini, dall’agosto 2019 direttrice del quotidiano La Nazione di Firenze, l’esito delle votazioni per l’Ordine dei giornalisti che si sono svolte con percentuali di votanti bassissime: si va da un 4% al primo turno ad un secondo con il 22%, se si considerano anche i voti espressi online.
Si può parlare di disaffezione o è anche il segno di una irrilevanza di questo istituto presso i suoi iscritti?
“C’è sicuramente un senso di sfiducia, che però è generale, ed è figlio di un’epoca complessa, piena d’incognite e incertezze, in cui chi un tempo riusciva a dare risposte oggi ci riesce meno. E non perché sia meno bravo di chi l’ha preceduto, siano essi apparati o istituzioni, gruppi, ma perché le esigenze sono più complesse. Direi che sia da leggere in questa chiave anche la bassa partecipazione al voto per l’Ordine dei giornalisti. È una crisi nella crisi più generale, non c’è una specificità dell’Ordine dei giornalisti in quanto tale, ma c’è una più generale crisi della rappresentanza”.
L’Ordine però è stato istituito nel 1963 con legge, le trasformazioni del settore nel tempo sono state numerose. È adeguato ad affrontare la professione di oggi? E come andrebbe modificato, irrobustito?
“Penso che gli Ordini professionali siano importantissimi, che abbiano fatto molto per la professione, in senso deontologico, che abbiano la funzione di essere corpo che dà un senso comune d’appartenenza, anche sul fronte della deontologia e della preparazione. Per quanto riguarda i giornalisti, se non ci fosse stato l’Ordine ci sarebbero state forse situazioni molto più complesse e anche molto più arretrate rispetto all’attenzione verso le donne, i minori, la violenza. Meno male che c’era l’Ordine, c’è, ce l’abbiamo. Poi, come in tutte le cose che durano nel tempo, ci vogliono sicuramente degli adeguamenti, ma io non ritengo di avere competenza specifica per esprimermi in questo senso, su che modifiche apportare, come cambiare”.
Ma come dovrebbe intervenire il Parlamento, visto che l’Ordine è il frutto di una sua legge, considerate anche le travolgenti trasformazioni che il settore ha subito sull’onda dell’introduzione delle nuove tecnologie e l’affermazione dei nuovi media?
“Darei la stessa risposta di prima. È certo che tutto ciò che dura nel tempo deve essere adeguato e riformato, non c’è dubbio alcuno. Il nostro settore è cambiato molto negli ultimi anni proprio in virtù delle nuove tecnologie, che ormai sono le protagoniste. La carta stampata è ancora regina nel prestigio, ma indubbiamente non è più regina nell’utenza, anzi oggi è persino minoritaria rispetto all’utenza. Che ci vogliano degli adeguamenti è indubbio, ma è una materia che frequento poco, non ho mai avuto un ruolo nell’Ordine quindi preferirei astenermi dal dare giudizi poco competenti”.
Nella questione professionale, visto che abbiamo accennato anche alle nuove tecnologie, c’è un aspetto che riguarda in particolare il precariato, i bassi compensi, anche se la questione riguarda più il sindacato che l’Ordine. Come si può ovviare a questa precarietà che ormai è diventata un tratto strutturale della professione giornalistica?
“Intanto ricominciando a far sì che le grandi aziende editoriali riescano ad essere sostenibili sul mercato, a produrre utili. Dobbiamo uscire da quella che è una crisi dell’informazione, che è una crisi ormai a livello globale e che va avanti da svariati anni. È difficile in una situazione di crisi profonda di sistema come quella odierna riformare davvero quest’aspetto che è centrale perché è legato all’accesso alla professione, soprattutto dei più giovani. Ma è legato anche ad una disaffezione nei confronti di un mestiere che oggi è meno prestigioso di quanto non fosse un tempo, ed è anche molto meno appetibile e meno ambito. Ci sono meno giovani che vogliono fare il giornalista rispetto a quando sono entrata io, e che non è poi nemmeno molto tempo fa, quindici anni, eppure c’è stato un calo d’interesse e di amore da parte delle generazioni più giovani rispetto a questa professione. Il mondo dell’informazione, globalmente, è in crisi. Quindi sono in crisi i compensi, è in crisi l’Inpgi, è una crisi di sistema e al tempo stesso è un sistema che va rilanciato e rinnovato, in un momento però molto complesso. Ad esempio, è ancora oggi piuttosto complicato fare soldi con il digitale ed è un ragionamento complessivo da fare in una fase storica come l’attuale, assai difficile”.
Quando deve reclutare nuove leve giornalistiche, a chi si rivolge, dove guarda? Ai collaboratori che ha già in casa, agli elenchi professionali, alle liste di disoccupazione o alle scuole di giornalismo?
“I ragazzi che oggi iniziano il percorso giornalistico ormai provengono in maggioranza dalle scuole di giornalismo, sempre più performanti e preparate. Poi ci sono ancora ragazzi che provengono dalle università, da Scienze della comunicazione piuttosto che da Scienze politiche. Però il tema della formazione è molto forte nel nostro mondo, proprio perché non é univoco, mentre se uno vuole diventare medico ha una strada sola da percorrere, la laurea e la specializzazione, ci vogliono anni, è difficile, però la strada è quella, è tracciata. Nel mondo del giornalismo non c’è una strada sola, è ancora un percorso un po’ confuso nelle sue modalità d’accesso. Da un lato è sicuramente una cosa molto positiva, perché ha molto a che fare con il nostro lavoro, che non è iperspecialistico, però confonde le acque e dà anche meno possibilità di organizzare in una maniera efficace, sia rispetto ai compensi sia rispetto alle modalità d’accesso, la formazione di nuovi giornalisti”.
Bisognerebbe modificare l’accesso?
“Forse bisognerebbe aprire un ragionamento, e mi sembra ci sia già, ma bisognerebbe aprirlo in maniera più decisa rispetto a come regolamentare l’accesso alla professione giornalistica. Il quesito è: come si accede alla professione giornalistica? Forse bisognerebbe rispondere a questa domanda in maniera più strutturata. La nostra è rimasta forse l’unica delle professioni in Italia in cui l’accesso non è univoco: come già detto, se voglio insegnare devo prendere una laurea, poi prendere l’abilitazione; se voglio fare l’ingegnere devo laurearmi in ingegneria. Nel giornalismo tutto questo non è così evidente. Da un lato è un bene, dall’altro confonde moltissimo, perché in una fase di crisi aumenta il senso di incertezza da parte di chi a diciott’anni deve decidere che cosa vuole fare da grande e, se vuole fare il giornalista, non ha una strada chiara dinanzi a sé. Quindi è un po’ scoraggiante, il mondo di oggi è così complicato. Parlo anche per la mia esperienza personale, perché quando avevo quell’età e volevo fare la giornalista non capivo subito cosa fare, come muovermi”.
In genere si continua a parla di “vocazione”…
“Certo, ho capito, ma la vocazione è eroica… e mitologica… invece bisognerebbe aiutare questi ragazzi ad avere delle idee più chiare e delle linee guida conseguenti. Per chi chiede ‘come si fa a diventare giornalisti?’, non c’è mai una risposta unica. Si cerca di dare dei consigli utili e il più possibile concreti. Ma molto spesso è anche solo questione di fortuna, di tenacia, caparbietà, di abnegazione, ci vuole ancora tanta volontà per fare questo mestiere”.
Lei e Norma Rangeri, de il manifesto, siete le uniche donne al vertice di un giornale. E nella storia del suo giornale è la prima donna ad arrivare al vertice in 160 anni. Però lo scorso luglio la rivista Forbes l’ha anche inserita tra le cento italiane di successo del 2021. C’è una questione femminile e di genere nel giornalismo, e quant’è forte?
“Direi che la risposta è già contenuta nella domanda. Il problema c’è, esiste. È una questione di numeri e c’è poco altro da commentare. Ma siamo in un momento storico in cui si parla molto dell’accesso delle donne alle professioni, anche nel giornalismo, mentre una volta non se ne parlava. Per una volta intendo anche solo tre anni fa… mentre negli ultimi tempi invece il tema è discusso nell’opinione pubblica, esiste a livello culturale. E io credo che quando se ne comincia a parlare si sia già fatto una parte del percorso perché, prima era solo un tema tabù. Semplicemente non considerato dall’opinione pubblica. Non c’è nessuna donna che diriga un giornale? Non è un problema e nessuno si poneva l’interrogativo. Che almeno se ne parli è un primo passo per poi aprire la strada a generazioni più inclusive”.
Cosa manca al giornalismo oggi? Qual è il suo punto debole?
“Il punto debole del giornalismo di oggi è la trasformazione del mondo dell’informazione con i social network, con il dilagare della Rete, con i supporti nuovi che sono gli smartphone. Siamo in una fase di trasformazione delicatissima, enorme. Per dare un termine di misura, è come essere nel pieno della rivoluzione industriale, quando si passò dalla macchina a vapore al motore. Stare dentro alla trasformazione è difficile, non tutti riescono a trasformarsi, perché ci vogliono soldi, ci vuole coraggio, visione. Questo porta ai giornali che chiudono, a difficoltà a tenere in piedi le redazioni con gli stessi organici di prima, difficoltà per le imprese editoriali ad andare avanti, difficoltà nel settore della pubblicità. Per vederla in modo positivo dobbiamo anche pensare che un domani si apriranno inevitabilmente nuove praterie di opportunità e di occasione, non appena si sarà riusciti a trasformarsi davvero. La fase più complicata è questa, il momento in cui siamo. Paradossalmente, è più facile partire da zero”.
(nella foto, Agnese Pini)