di ALBERTO FERRIGOLO

“L’indirizzo che deve prendere il giornalismo professionale o professionista è quello di studiare i cambiamenti positivi che ci sono stati nel mondo. In America, ad esempio, i quotidiani hanno avuto una crescita degli abbonamenti fino al 260% durante il il periodo del Covid, questo significa che nel mondo ci sono esperimenti virtuosi di nuova sostenibilità economica. Le esperienze virtuose vanno copiate e anche esportate”. 

Il professor Mario Morcellini, ordinario di Sociologia della comunicazione dell’Università degli studi La Sapienza in pensione e oggi Direttore dell’Alta Scuola di Comunicazione e Media digitali Unitelma Sapienza, ritiene che “dopo il Covid bisogna rilanciare una battaglia di opinione e di rigore che pretenda che sia lo Stato a risolvere in parte la crisi del giornalismo. Ci deve essere un contributo pubblico, una forma di sostegno fiscale sulle tecnologie, sulla carta, sulla posta, che sia a carico dello Stato per tutto quello che non influenza i contenuti. Sono, questi, i prerequisti per poter esistere e competere nel mondo attuale. Insomma, ci vuole una legge del Parlamento”, sostiene. 

Da decenni si parla di riforma dell’Ordine dei giornalisti, ma la legge del 1963 che lo istituisce va forse cambiata aggiornata, migliorata? O meglio, l’Ordine così com’è ha ancora un senso? 

“Dal punto di vista delle apparenze, del fatto che siamo in una Comunità di prospettive di futuro come l’Europa sarebbe non illogico pensare a una semplificazione. Considerando il fatto che in nessun Paese europeo c’è un OdG come il nostro. Tuttavia, l’attenta valutazione di alcuni aspetti dello sviluppo dei media non incoraggia ad andare verso una semplificazione che significherebbe l’abolizione, la quale sicuramente in una fase di transizione comporterebbe più problemi che vantaggi. Vantaggi che si potrebbero avere solo a regime e chissà quando. Sono però convinto che la presenza di un Ordine oggi ridiventi centrale, se pensiamo alle vere minacce del nostro tempo. Una è il suprematismo digitale e il fatto che una tecnologia di per sé, da sola, è capace di mettere in drammatica difficoltà l’informazione ma, soprattutto, la libertà d’informazione. Lo stesso episodio di Capitol Hill nella vicenda Trump, per esempio, insegna che i grandi players del mondo digitale sono in grado di esercitare quel che si chiama un autentico sovranismo che non conosce una bandiera ideale, ma solo interessi economici. Di fronte a una minaccia del genere, l’Ordine diventa non solo centrale, ma moderno a tal punto da ipotizzare che diventi un esempio per gli altri Paesi che intendono difendere la propria identità e cultura”.

Tuttavia, come si può mettere in linea l’OdG con le esigenze d’una professione cambiata e che continua a cambiare costantemente, anche per accogliere e rappresentare al meglio le nuove professionalità, che sono la conseguenza delle trasformazioni tecnologiche?

“Per correggere la strada l’Ordine dovrebbe far quello che non ha mai fatto adeguatamente nella sua storia, cioè seguire la via indicata dal cambiamento tecnologico, senza però subordinarsi ad essa. È evidente che ci vuole una grande capacità di riconoscimento di tutte le professionalità che fanno comunicazione a ogni livello e con ogni piattaforma. E già questo è un elemento che riduce le distanze etiche e deontologiche tra i giornalisti e i comunicatori, che spesso pensano di essere in qualche misura sottratti alle regole dalla bellezza delle tecnologie. Avere invece un grande contenitore di tutte le professionalità comunicative rimetterebbe al centro almeno due questioni fondamentali. Innanzitutto, un accesso più liberale e meno serrato: l’Ordine ogni tanto si richiudeva dentro il Tempio chiedendo il ‘Green Pass’ a tutti quelli che stavano fuori. Secondo, l’attività di formazione: l’Ordine l’ha portata avanti ambiguamente. Le scuole sicuramente hanno rappresentato un processo di innovazione, lo si vede anche dalla facilità con cui coloro che provengono dalle scuole nella prima fase storica hanno trovato lavoro e sono stati un elemento di sviluppo dentro le redazioni. Però poi questo ha coinciso con la crisi del giornalismo e cioè con il fatto che la sostenibilità economica della professione è diventata problematica, perciò l’idea di fare scuole così elitistiche come quelle esistenti è imbarazzante per un Paese moderno. Costi proibitivi. Non c’è nemmeno il credito d’imposta: cioè la possibilità di spendere meno all’inizio per poi restituire nel corso degli anni di lavoro. A mio giudizio sarebbe arrivato il momento di fare un grande patto con l’università”.

Anche se pure con le università le scuole non sono meno costose…

“Per carità, è così, perché le tecnologie richieste non sono tecnologie a basso costo. Basti pensare che in qualche scuola, come quella di Perugia, le tecnologie sono quasi più avanzate di quelle in dotazione nelle redazioni. Il che significa che i soldi servono, eccome se sono necessari. Ma è proprio qui che dovrebbe arrivare il ‘patto con l’università’: creare nel Paese un numero equilibrato di scuole, in modo da non produrre troppa offerta, perché dobbiamo pur tenere conto del cambiamento del mercato. Ma il fatto di coinvolgere l’università potrebbe servire a rendere la formazione più indipendente. Di fatto, non va bene che la formazione sia legata agli stessi giornalisti”. 

Perché, cosa non va nella formazione fatta dai giornalisti per i giornalisti?

“Quel che sta succedendo è che le scuole sono gestite più che dalle università da giornalisti, anche autorevoli in alcuni casi, veri fuoriclasse rispetto alla media, ma non c’è una garanzia che tutti sappiano guardare al di là della corporazione. Da questo punto di vista l’università ha il vantaggio di poter offrire saperi tecnologici, saperi informatici, saperi storici, saperi sociologici e comunicativi, che sono fondamentali per un giornalista. Quindi nessun giornalista può pretendere di essere così competente su terreni tanto trasversali. Pertanto, un accordo con l’università renderebbe anche l’Ordine più forte nella percezione collettiva, mentre la percezione della formazione che si ha generalmente nei salotti è che sia spesso riservata a persone selezionate dagli stessi giornalisti. E pure ispirata al familismo. Non dobbiamo dimenticare infatti che una buona parte dei giornalisti italiani non sono laureati. O meglio, i non laureati sono meno che in passato, ma sono sempre troppi”.

Quindi la funzione specifica dell’università nella formazione in cosa consiste?

“La ragione per cui insisto su questo aspetto di ripensare drasticamente la formazione è che nel tempo contemporaneo, con i cambiamenti che ci sono, con le novità storico sociali – il terrorismo, l’uso della religione nel terrorismo, le migrazioni – se non conosci gli elementi di economia internazionale non vai da nessuna parte. E qui l’altro grosso compito dell’Ordine, che purtroppo ha fatto pochissimo, è sull’aggiornamento. Questo evita che ci sia un conflitto permanente tra giovani preparati e adulti quasi da rottamare. Secondo me soprattutto l’aggiornamento dovrebbe fare i conti con l’università, perché li dentro ci sono tanti saperi”. 

Le figure di chi fa informazione si sono moltiplicate, anche con competenze tecniche talvolta peculiari, che marcano differenze, come diceva lei, generazionali. Ci sono più free lance, sono cresciuti di numero i collaboratori, sono un’infinità i pubblicisti che fanno informazione dentro le redazioni. Bene, tutte queste figure prodotto delle nuove tecnologie  e di internet possono convivere sotto lo stesso tetto? E da questo punto di vista ha ancora senso la distinzione professionisti-pubblicisti?

“Partiamo da questo presupposto: la distinzione più elementare,  più credibile è che i giornalisti siano coloro i quali vivono del proprio mestiere e della loro professione, cioè che traggono le risorse della propria sopravvivenza da quel che fanno, scrivono, producono. I pubblicisti  – a mio giudizio sarebbe un errore tenerli fuori dopo che c’è stata questa lunga frequentazione dall’epoca in cui è stata varata la legge istitutiva nel 1963 – sono figure che fanno altre cose, la cui vita, quando non c’è il precariato estremo, dipende da altre risorse. Eppure l’offerta di giornalismo non è normale che debba esistere soltanto per chi sta dentro le redazioni, perché il problema è che oggi le redazioni sono saltate e non solo per via del Covid e dello smart working. L’ambiente della redazione, che un tempo sembrava un fulcro elevato ed elaborato di professionalità, oggi in realtà è diventato un’illusione. Il fulcro, semmai, è riuscire a stare sul cambiamento”. 

Cosa intende dire?

“La redazione vecchio stile, il desk, le forze, sono diventate secondarie rispetto al fatto che devi in qualche misura rilanciare il giornalismo e il mestiere dell’informazione cercando di farli diventare competitivi ed essere anche i mediatori dei cambiamenti, delle tecnologie e della cultura. È una visione ambiziosa, ma i pubblicisti da questo punto di vista sono preziosi, anche come elemento di massificazione. Solo così, con numeri alti diventi politicamente rilevante, sindacalmente influente. Bisogna evitare che la gente pensi che il giornalismo te lo fai da solo in casa, illudendoti che sei tu a mettere in fila l’ordine dei saperi con cui entri in contatto. È fondamentale in un tempo come il nostro in cui i soggetti cadono nella trappola della disintermediazione, formula molto cara a Rodotà. La disintermediazione è il vero nemico del giornalismo perché fa crescere una società in cui il diritto della presa di parola maschera il fatto che per prenderla devi anche esserti preparato a mettere in fila i saperi. Ci si deve rendere conto che la crisi del giornalismo non è solo crisi economico-finanziaria, è anche il risultato del rifiuto di una parte della società dei saperi esperti: le prime figure che i negazionisti attaccano con maggiore frequenza sono gli esperti della ricerca medico-scientifica e, subito dopo, i giornalisti”. 

Un merito e un difetto dell’Ordine?

“Il merito è sicuramente quello di rappresentare pubblicamente l’idea che la lettura ordinata del mondo rende i soggetti più forti di fronte alla rapidità estrema e compulsiva del cambiamento, questo è un merito incomparabile. Con la conoscenza il cambiamento diventa umanamente sopportabile. Il difetto straordinario, e grave, è l’autoreferenzialità della professione giornalistica che c’è stata per decenni. Quasi peggio di quella dei professori universitari. C’è una ruggine storica tra professori e giornalisti. I professori pensano che i giornalisti siano scadenti, i giornalisti ritengono che i professori facciano soltanto mitologie teoriche. Sono due falsi clamorosi. Gli intellettuali non capiscono che il giornalista deve saper tradurre concetti complessi e non lo capiscono perché in Italia oltre a esserci un giornalismo non di assoluta attualità e precisione, non c’è neanche cultura della divulgazione. I giornalisti almeno ci provano e lo hanno fatto anche durante il Covid. Ma, contemporaneamente, il giudizio medio che i giornalisti hanno dell’università è che sia un posto di raccomandati e snob. Questo significa che ci dovrebbe essere una sorta di frequentazione reciproca e gli studiosi dovrebbero capire che il racconto che il giornalismo fa è la prova che la comunicazione e l’informazione offrono alle persone la conoscenza preliminare del mondo”. 

Qual è lo stato del giornalismo oggi?

“Il ragionamento va sdoppiato, prima e dopo il Covid. Prima del Covid il giornalismo era stretto nella morsa della consapevolezza che il suo destino era irrimediabilmente segnato. E la battuta più facile in cui cadevano i giornalisti era quella sull’anno in cui uscirà l’ultima copia del New York Times, il 2043, che poi è diventata una leggenda, perché il NYT va meglio ora di prima, avendo trovato nuove forme di sostentamento economico. Come un complesso d’inferiorità, l’incubo d’essere sull’orlo del baratro. Durante il Covid ci sono stati cambiamenti molto significativi, sia nel rapporto del pubblico con il mainstream giornalistico, la comunicazione mediata da esperti, sia dal punto di vista dell’aumento della reputazione. Dove la seconda è cresciuta anche più del mercato. Il Covid ti costringe ad aumentare la quantità di saperi di cui sei normalmente dotato: di fronte a cose nuove perfino gli esperti talvolta balbettano, figurarsi il cittadino comune. Questo significa che durante il Covid – sulla base di venti mesi di analisi continuative e con metodi diversi – c’è stato un ritorno di attenzione al giornalismo. La Tv, ad esempio, è cresciuta soprattutto nella fascia in cui ci sono i telegiornali; i siti istituzionali, che prima erano inconsistenti, sono diventati i leader di opinione. La radio non ha invece patito una crisi ulteriore rispetto a quella che già aveva. Tutta quella parte dell’informazione che fa pensare non alla disintermediazione, ma alla presa d’atto che senza mediazione non si cresce e non si diventa protagonisti dei cambiamenti, ha avuto una prova inconfutabile: persino la disinformazione non è aumentata durante il Covid, mentre sembrava che fosse il tempo ovvio per farla espandere. Apparentemente c’è stato un aumento della fakes, ma in realtà non è così. Quindi, di fronte ai rischio di perdere la vita gli uomini hanno ritrovato una notevole empatia nei confronti della funzione di mediazione dell’informazione. Non è detto che questa luna di miele duri in eterno, ma la reputazione è aumentata per tutti i media tranne che per il ‘cazzeggio social’, profondamente regredito anche tra i giovani. E noi conosciamo bene i giudizio spregiativi che circolano sulla professione giornalistica…”. 

(nella foto, Mario Morcellini)

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