di MICHELE MEZZA
Penso che in questi due mesi di combattimenti in Ucraina il nostro mestiere sia stato profondamente investito da processi di sostanziale e non negoziabile trasformazione. I giornalisti, tutti i giornalisti, in tutto il mondo, e dunque anche noi italiani, siamo figure professionalmente embedded. Come si sa con questo termine si indicano i reporter che al seguito delle truppe partecipano alle operazioni militari, per avere un punto di vista dall’interno del fronte, anche se innegabilmente, pagano questa vicinanza all’evento con una inevitabile forma di coinvolgimento, se non di vera e propria indulgenza con la parte bellica che ospita gli inviati al seguito.
Io penso che in queste settimane si sia consumata una vera e propria “mediamorfosi” che va al di là delle tradizionali complicità o comprensioni, o ancora addirittura ruoli attivi nella propaganda, che ci sono sempre stati, in tutte le guerre. Se pensiamo a come gli americani mobilitarono la grande fabbrica dei sogni che era Hollywood nella seconda guerra mondiale per raccontare e giustificare le loro strategie, comprendiamo come non sia questa la novità.
resistenza ucraina
Quella che io considero una svolta, che stressa il ruolo dei giornalisti, arruolandoli non in una specifica parte, ma nella stessa idea di guerra, è il fatto che quella in Ucraina è la prima guerra 3.0. E’ infatti la prima volta che lo scontro militare vede in campo tutti gli strumenti tipici del giornalismo attuale, parliamo di quelli che ancora qualche romantico chiama i nuovi media, che diventano veri e propri sistemi d’arma.
Davanti ai nostri occhi abbiamo visto come la resistenza ucraina è stata appoggiata dalle grandi piattaforme digitali, da Google a Amazon a Facebook fino a Twitter, che hanno sostenuto e promosso forme di connessione essenziale per assicurare i collegamenti diretti fra i nuclei combattenti e la popolazione civile. Abbiamo visto Telegram diventare un vero campo di battaglia fra hacker e avatar nemici che si scontrano ancora in queste ore, organizzando azioni di depistaggio o di phishing militare, cioè rubare identità e dati per poi colpire l’avversario. Abbiamo visto Microsoft assicurare le intercettazioni delle comunicazioni digitali delle truppe russe, favorendo il cecchinaggio nei confronti degli alti ufficiali, che infatti sono stati eliminati in gran numero. Soprattutto abbiamo visto in azioni droni civili, commerciali, dispositivi che si comprano nei negozi a pochi euro, integrati con sistemi mobili e cruscotti di comando su telefonini, individuare e colpire le colonne blindate. E ancora di più, ci siamo stupiti dinanzi all’impegno massiccio del gruppo di Elon Musk che con la sua poderosa flotta satellitare, forte di qualcosa come 18 mila satelliti, scannerizzare ogni centimetro quadrato del territorio ucraino, rendendo visibili e dunque un bersaglio, tutti gli oggetti o i singoli militari russi.
logistica militare
Tutto questo non è un episodio o folklore tecnologico, è un cambio di natura e di percezione per l’intero mondo digitale. In Ucraina la rete ha perso la sua innocenza e soprattutto la sua universalità. Per molti anni, dopo la sospirata tregua, Internet non sarà più uno spazio globale, ma diventerà una concatenazione di reti locali, separate e contrapposte. In queste reti la cassetta del giornalismo- satelliti, droni, software, algoritmi, sistemi di ricerca, regie rendering, piattaforme social, sistemi audiovisivi- è già diventata logistica militare, sistema di integrazione di una mobilitazione civile in caso di emergenza. Siamo immersi in un nuovo ambiente dove è la sicurezza e non più la trasparenza a decidere.
Tocca a un Paese, nel nostro caso all’Italia, farci sapere come vuole dotarsi di un sistema di informazione autonomo e sovrano che sappia tutelare la comunità nazionale in emergenze che sono già alle porte.
il cerchio si chiude
La guerra non ha stabilito la scelta digitale.
Quella era già stata consumata da almeno 10 anni. Su come lavorano e con chi lavorano i giornalisti non dobbiamo più discutere né strapparci i capelli. Dobbiamo solo leggere il libro di Jill Abramson, “Mercanti di Verità” ( Sellerio), dove con limpida prosa è descritto ciò che sta accadendo. La Abramson ci racconta l’evoluzione negli ultimi 20 anni del mestiere, spiegandoci che siamo diventati dei new jockey, degli smistatori di contenuti altrui, che dobbiamo rendere più attraenti e fruibili. Il verbo usato e to match: abbinare. I giornalisti abbinano ogni singola notizia ad ognuno dei milioni di utenti unici dei siti web delle testate.
In questo processo la guerra ha solo arruolato queste tecniche rendendoci parte del dispositivo militare-industriale che si fronteggia nella crisi bellica.
Non a caso Elon Musk, dopo aver maturato il suo credito con l’occidente, sostenendo la resistenza ucraina, si avventa su Twitter e chiude il suo cerchio. L’uomo più ricco del mondo infatti è titolare dei sistemi di sensoristica che ricostruiscono emotività e meccanica della guida umana di un’auto, è proprietario della più possente flotta satellitare del mondo, che raccoglie i dati su tutti i nostri movimenti, è anche l’imprenditore di società di biotecnologie che indagano su come inserire microship nel cervello, a scopo terapeutico. E infine è l’autore dei nuovi software di scrittura automatica e di selezione delle notizie con intelligenza artificiale. A questa catena da moderna famiglia Addams della robotizzazione mancava un grande serbatoio di dati e informazioni mondiali: ecco perché Twitter.
deserto sociale
In tutto questo noi che facciamo? Proprio il caso di Twitter ci indica una strada. Se, come racconta la Abramson, il nostro destino è fronteggiare un sistema professionale tutto e solo mediato da un algoritmo, allora, proprio come sta accadendo su Twitter, dobbiamo aprire gli algoritmi. In queste ore decine di migliaia di utenti stanno lasciando la piattaforma per protesta contro l’arroganza di Musk. Dunque il digitale non è un deserto sociale senza conflitti. Combattere, civilmente, si può. I giornalisti devono combattere per strappare a questi samurai della tecnologia la bandiera della libertà. Bisogna pretendere di riprogrammare gli algoritmi, così come riprogrammammo la prima catena produttiva nel passaggio dal caldo al freddo in tipografia. Oggi è più complicato, certo, ma abbiamo anche più saperi, più competenze e più consapevolezza.
Dobbiamo chiedere al governo un tavolo che traduca il nuovo Digital Market Act, approvato dall’Unione Europea, che prevede proprio la condivisione di algoritmi e data base, in una procedura speciale per l’informazione: dobbiamo pretendere la doppia chiave del software e riprogrammare, con piattaforme di pubblica utilità l’up grading dell’algoritmo. Il pericolo non è il prototipo dell’intelligenza artificiale, ma è il machine learning, quando il bot impara e comincia a crescere. Lì dobbiamo imporre un controllo negoziale: nuovi profili professionali, nuove funzioni, nuove ambizioni per un giornalismo che renda la sicurezza una variabile della libertà e non viceversa.
(intervento al seminario “Giornalismo, ‘verità’, ordinamento professionale”, organizzato dalla Fondazione Paolo Murialdi in Fnsi, giovedì 28 aprile 2022)