di ANDREA GARIBALDI
L’Italia è schierata con l’Ucraina?
Il giornalismo italiano non necessariamente.
Sulla clamorosa intervista al ministro degli Esteri russo Seghej Lavrov da parte di Zona bianca (Rete 4), il tema di fondo è questo: la politica di un Paese è una cosa, il giornalismo un’altra. E invece? Abbiamo visto la politica che, in forme diverse, spiega ai giornalisti cosa devono e non devono fare, in questa tragica situazione di guerra. Perché è stato possibile? Perché in Italia la commistione, in taluni casi la dipendenza, dell’informazione dalla politica è sempre stata molto forte.
In realtà, se Draghi dice che Lavrov ha detto parole “aberranti” e “oscene”, nel caso di Hitler di origine ebrea, se dice che “professionalmente un’intervista senza contraddittorio non è un granché”, fa il suo lavoro di presidente del Consiglio, esprime una posizione politica, in linea con la sua azione di governo. La risposta del mondo dell’informazione dovrebbe essere una serena rivendicazione di ciò che un giornalista, Giuseppe Brindisi, ha fatto, vale a dire l’intervista a Lavrov. Ad ognuno il suo mestiere, ma in Italia, Paese dove i confini sono sempre fragili, questo è complicato.
persone comuni
Proviamo a ragionare nel campo del giornalismo.
E se in guerra ci fosse l’Italia e non l’Ucraina? Avremmo potuto intervistare Lavrov lo stesso: intervistare il nemico non sarebbe un tradimento, ma un atto di conoscenza. Perché il giornalismo è non dare mai verità per scontate, è invece cercare in ogni modo di avvicinarsi alla verità, compito difficile, delicato, spesso impopolare.
Non si tratta di dire che i russi sono dei mostri, si deve cercare di farlo emergere dai fatti. Di far parlare le immagini, di ascoltare le testimonianze delle persone comuni (come fa, con molta compassione, Francesca Mannocchi su La7, per esempio). Di far parlare i protagonisti, anche quelli negativi, perché la realtà va guardata in viso, non offuscata dall’ideologia.
Si sarebbe dovuta fare -ove possibile- un’intervista a Hitler, a Stalin, a Pol Pot, a Bokassa, a Pinochet? Sì, perché giornalismo è anche affondare le mani nel grande male. Così come i giornalisti possono accettare di essere “embedded” -inseriti al seguito di un esercito- perché da dentro si comprendono altre cose, basta dichiarare dove ci si trova.
il tono e la postura
L’intervista a Lavrov ha offerto dati di comprensione. La continuità con cui non rispondeva ad alcune domande, virando su altri argomenti, come evitava le responsabilità, come manifestava posizioni prive di qualsiasi ombra di errore, una convinzione di infallibilità. E il tono, la postura. Ha messo paura, e non per le domande che mancavano.
Poteva il cronista Brindisi essere più aggressivo, più al centro della scena? Certo, si può sempre fare meglio. Poteva ribattere sull’ebraismo, poteva non chiudere con “Buon lavoro”, anche se ha aggiunto “e spero che la pace arrivi presto”.
Si può discutere all’infinito sulle modalità prescelte per l’intervista a Lavrov, una volta che era stata ottenuta. Ma non sull’opportunità di farla. All’indomani, agenzie e primarie tv del mondo hanno chiesto a Rete 4 di comprare i diritti. Avrebbero tutti voluto firmare quell’intervista. Sui giornali e sulle reti si è dibattuto a lungo. Chiedendosi anche se Lavrov abbia scelto Mediaset in virtù degli antichi cordiali rapporti fra Berlusconi e Putin. E qui ci siamo ricascati: non si riesce mai a pensare, in Italia che un giornalista o una testata siano stati bravi per conto loro. Senza l’appoggio di qualche politico.