Sono un giornalista precario qualunque di un giornale qualunque nell’Italia del 2022.
Come ogni anno, luglio e agosto sono periodi drammatici per i collaboratori esterni, fotografi, videomaker e chiunque sia pagato a pezzo nel sistema dell’editoria e televisione italiana.
Questi sono i mesi in cui gran parte del personale delle segreterie dei giornali va in ferie, (loro sì, ferie pagate) e i pagamenti per i fornitori esterni slittano verso i prossimi borderò (settembre), lasciando numerosi giornalisti precari per ben due mesi senza compenso.
finti dipendenti
Tutto ciò si somma a discorsi ormai consumati riguardanti i compensi di persone sulle quali ormai si basa buona parte dell’informazione dei media italiani: orde di collaboratori esterni con partita iva, molti dei quali finti freelance, cioè con tutti gli obblighi di un lavoratore dipendente -esclusiva, lavoro su turni, reperibilità, massima disponibilità su festivi- ma senza alcun diritto dei lavoratori dipendenti, nessuna maggiorazione per gli straordinari, nessun diritto a ferie e malattie.
Tale situazione di umiliante precarietà si va ad aggiungere a compensi da fame, che non sono mai cresciuti e non sono determinati da nessun contratto nazionale, in un momento in cui è salito enormemente il costo della vita (sono aumentati affitti, utenze, beni di prima necessità) e soprattutto in un momento in cui i giornalisti precari devono fare i conti con la propria partita iva. Iniziano ora i pagamenti delle tasse e dei contributi Inpgi per una pensione che noi non vedremo mai.
ricattabili e corrompibili
Bisogna poi tenere conto che alcune testate nazionali hanno iniziato a fare un giochetto aberrante, sulla pelle dei loro collaboratori: vengono pagati solo i servizi pubblicati. Capita quindi di lavorare e di non ricevere compenso alcuno fin quando la testata non decida di pubblicare il tuo lavoro: è frequente restare all’asciutto, visto che un giornale può essere fatto e disfatto più volte nell’arco di una giornata.
L’Ordine dei giornalisti che dovrebbe garantire e tutelare la categoria, al quale, anche i precari pagano una cospicua retta ogni anno, al massimo emana una Carta (quella di Firenze) che i direttori e i padroni usano allegramente come fosse carta igienica. Considerando inoltre che un giornalista ridotto alla fame è facilmente ricattabile e corrompibile e rischia di produrre, per forza di cose, pezzi e servizi giornalistici di qualità infima.
sfruttamento degli altri
Ciò che fa più male è andare a raccontare storie di precarietà di altre persone, sulle quali la maggior parte dei giornali oggi ipocritamente investe. Per la stampa italiana raccontare il dramma di lavoratori che perdono il lavoro è importantissimo, perché il dolore sociale si sa, vende di più. Ci mandano a raccogliere testimonianze di riders sottopagati e sfruttati dai giganti della Gig economy, o di facchini e lavoratori della logistica affamati e vessati da caporali senza scrupoli, per fare titoloni e indignarsi pubblicamente della precarietà e dello sfruttamento. Lo sfruttamento degli altri però, mettendo sotto al tappeto quello che accade nelle loro redazioni. Fa male perché quelle testimonianze sono anche le nostre, il dolore degli sfruttati è anche il nostro ma, nella maggior parte dei casi, i protagonisti delle storie che raccontiamo, sono più tutelati di noi e guadagnano l’ora il doppio del nostro compenso.
cinici e spietati
La nostra categoria è priva di qualsiasi concetto di coscienza di classe: in molti si lamentano della precarietà e vivono una vita quasi ai margini della società, ma non riescono in alcun modo a sindacalizzarsi, a mettersi insieme o a esprimere una qualsiasi forma di lotta, o di ribellione a questo sistema. Eppure, considerando il numero dei precari e considerando quanto ormai i giornali siano dipendenti da noi, basterebbe poco a ribaltare questa struttura.
Dopo tanti anni di precariato e con nessuna prospettiva di un cambiamento di rotta all’orizzonte, sono arrivato alla consapevolezza che in fondo ce lo meritiamo. Ce la meritiamo tutta questa vita di incertezze e sfruttamento, e mi ci metto anche io, in quanto scrivo questa lettera tutelato e garantito dall’anonimato, perché esporsi pubblicamente significherebbe avere ritorsioni e perdere pure quel magro compenso che riesco a racimolare a fine mese. Ce lo meritiamo perché, alla fine dei conti, forse noi giornalisti siamo davvero come ci raccontano: cinici e spietati. Forse quelle storie di precarietà delle altre categorie di lavoratori che raccontiamo con finto trasporto sui nostri giornali, ci servono solo per tirare a campare e aggiungere un tassello in più alla lista dei pezzi fatti, senza alcuna empatia.
(Lettera firmata)