Tv di FRANCO BEVILACQUA

Era l’estate del 1975 e stavo discutendo con Giorgio Forattini in fondo al lungo corridoio della redazione di Paese Sera, dove lavoravamo, se valeva la pena di accettare l’offerta che avevamo ricevuto di andare a trattare con Eugenio Scalfari l’assunzione al nuovo quotidiano che il gruppo L’Espresso e Giorgio Mondadori stavano fondando.

Avevamo più di qualche dubbio di lasciare Paese Sera: io ero finalmente approdato, dopo anni nei settimanali, in un quotidiano e avevo contribuito, assieme a Giulio Cesare Italiani, a organizzare un settore grafico totalmente innovativo per quegli anni, che progettava e disegnava tutte le pagine prima di inviarle in tipografia. Ero riuscito, in occasione della morte di Picasso, a disegnare una prima pagina dove, per la prima volta in Italia, la testata era spostata a centro pagina per far posto, in alto, a un particolare del quadro Guernica, una mano che stringe una spada spezzata. Il direttore dovette chiedere l’autorizzazione all’editore per realizzarla. Giorgio aveva avuto successo e notorietà con le vignette politiche, in particolare quella sulla vittoria del No, con un piccolissimo Fanfani a forma di tappo che salta da una bottiglia di spumante.

“non c’è spazio”

Il fascino dell’avventura di partecipare alla fondazione di un nuovo quotidiano ci fece abbandonare i dubbi, anche se… ”tenevamo famiglia”.

Un nuovo quotidiano, tutto da inventare! C’era in giro un gran parlare del prossimo lancio del nuovo giornale: Scalfari stava girando l’Italia per una serie di conferenze stampa per illustrare il progetto.

Queste conferenze furono oggetto di una feroce e divertente satira in una storia a fumetti di Pericoli e Pirella.

C’era molto scetticismo sulla possibilità di successo di un nuovo quotidiano: “Non c’è spazio”, dicevano gli esperti.

campagna acquisti

Sui muri delle principali città italiane comparvero giganteschi manifesti con la scritta “O credi al Tg o credi a la Repubblica”, “O credi alle versioni ufficiali o credi a la Repubblica”; un lancio pubblicitario aggressivo impostato sulla libertà di espressione e sulla serietà e credibilità del nuovo giornale, qualità continuamente evidenziate da Scalfari nel giro delle sue conferenze.

Del nuovo giornale si parlava molto, ma ben poco si sapeva. Si sapeva che avrebbe avuto un formato inedito per l’Italia, come quello del francese Le Monde, e che vi avrebbero scritto le migliori firme del giornalismo italiano e internazionale; la “campagna acquisti” era freneticamente in corso.

il mondo e l’europeo

Si sapeva anche che l’idea veniva da lontano, che aveva avuto una lunghissima gestazione. Così la racconta Scalfari: “Un punto poco noto all’attuale pubblica opinione: il quotidiano la Repubblica non fu pensato da me e da un ristretto gruppo di collaboratori (tra i quali ha sempre primeggiato Carlo Caracciolo) nel 1970, ma nei primi anni Cinquanta del secolo scorso, da me e da Arrigo Benedetti, che conobbi a Milano nel 1950 quando ancora dirigeva il settimanale L’Europeo da lui fondato nel ’47. Abitavo in quegli anni a Milano dove lavoravo alla Banca Nazionale del Lavoro. Collaboravo al Mondo di Mario Pannunzio , dove il mio primo articolo apparve nel 1949. Trasferito a Milano conobbi subito Benedetti, cui ero stato presentato da una lettera di Pannunzio. Diventammo amici in poco tempo e dopo un anno Arrigo mi affidò una rubrica di economia. Mi insegnò a scrivere, Arrigo, con uno stile da giornalista che si rivolgeva a un vasto pubblico di lettori, mentre il Mondo di Pannunzio di lettori ne aveva assai pochi. Era un settimanale di grande qualità, mentre i lettori dell’Europeo errano centinaia di migliaia. La prosa giornalistica dell’uno era dunque assai diversa da quella dell’altro e fu proprio in quegli anni che io acquistai uno stile che integra l’uno con l’altro. 

cultura al centro

Arrigo Benedetti pensava da tempo di fondare un giornale quotidiano. Quell’idea lo affascinava e cominciò a discuterne con me. Una discussione che durò mesi e fu molto positiva. L’dea portante era una vera e propria rivoluzione editoriale: abolizione della cosiddetta ‘terza pagina’ e trasferimento della cultura al centro del giornale; nuovi caratteri tipografici per i titoli, le prime pagine dedicate a fatti di grande importanza, qualunque ne fosse la natura: fatti di politica interna o internazionale o di cronaca o di costume o di sport. E, oltre a questa, altre ‘rivoluzioni’ che ometto, ma che configuravano un quotidiano del tutto nuovo.

Dirò anche che nel 1954 Rizzoli acquistò dall’editore Mazzocchi L’Europeo, e licenziò Benedetti per divergenze di linea politica. Arrigo decise di trasferirsi a Roma e io ne seguii l’esempio. Fu allora che l’idea d’un giornale quotidiano prese corpo. Lo proponemmo ad Adriano Olivetti e a Enrico Mattei, capo dell’Eni. Speravamo che i due si mettessero d’accordo. Invece non fu così. Mattei aveva accettato la proposta del quotidiano, ma Olivetti finanziariamente non ce la faceva e ci propose di trasformare il nostro progetto in un settimanale. Noi preferimmo avere come proprietario Olivetti e così nacque nell’ottobre del 1955 l’Espresso. Mattei non rinunciò però alla proposta di fare un quotidiano e lo realizzò adottando in pieno il nostro progetto; così nella primavera del ’56. vide la luce il Giorno”. 

chiudere e licenziare 

Quando uscì la Repubblica “…la nostra idea iniziale di tanti anni prima era tuttavia condizionata dalla relativa scarsità di mezzi finanziari disponibili. I finanziatori proprietari di Repubblica erano due: il Gruppo Espresso e la Mondadori. …I capitali disponibili erano 5 miliardi li lire, ‘fifty-fifty’. Secondo i miei calcoli erano sufficienti a raggiungere il pareggio entro tre anni, con una vendita prevista di 120 mila copie. Se questo obiettivo non fosse stato raggiunto, l’editore – cioè noi e Mondadori – avrebbe chiuso il giornale e licenziato i redattori.

Queste notizie furono da me annunciate nella prima assemblea di redazione e accettate”.

Quando in quell’assemblea ascoltai questa non esaltante previsione, ripensai ai ragionamenti che avevo fatto con Forattini; se l’avessi saputo non so se avrei avuto il coraggio di lasciare un giornale che a Roma era una certezza.

“ferito un giornalista”

Ma ormai ero lì, non potevo far altro che buttarmi in quell’avventura. 

Avevo voglia di novità, perché nel panorama della stampa in quegli anni, l’unico scossone lo aveva dato Indro Montanelli con l’uscita dal Corriere della Sera, in polemica con la linea politica impressa dal direttore Ottone; aveva fondato il Giornale Nuovo, con alcune delle firme del Corriere che non condividevano l’orientamento a sinistra del “giornalone”; però, rastrellati i lettori scontenti della sterzata, si attestò su una diffusione dignitosa, ma non certo esaltante.

Nel clima degli anni di piombo, fare un giornale dichiaratamente conservatore, significava scatenare ostracismo e disprezzo, tanto che Montanelli, il 3 giugno 1977, fu gambizzato. Non ci furono sollevazioni popolari, il Corriere titolò: “Ferito un giornalista”. 

Scrisse Montanelli: “Fummo per dieci anni lasciati soli contro tutti, comprese le pistole dei brigatisti. Il nostro nome era impronunciabile. Quando quelle pistole se la rifecero con le mie gambe, i due maggiori quotidiani italiani –Corriere della Sera e La Stampa– riuscirono a dare la notizia senza fare il mio nome”.

capire le vignette

La Repubblica usciva già da qualche mese e Forattini commentò con una delle sue folgoranti vignette l’attentato, riuscendo nel contempo a evidenziare, con ironia e affetto, la rivalità professionale tra i due “mostri” del giornalismo: la vignetta raffigurava Scalfari che si puntava una pistola su un piede, per non essere da meno. Dopo averla disegnata, Forattini non aveva il coraggio di mostrarla a Scalfari; la diede al vicedirettore, Gianni Rocca, che si fece coraggio e andò. Scalfari la osservò per un po’, sorrise e diede il suo assenso. Ci demmo di gomito Giorgio e io, che una volta alla settimana lo sostituivo per la vignetta politica nella pagina dei commenti e ogni giorno ne facevo una sulle pagine di economia; spesso avevamo l’impressione che a Scalfari le vignette non interessassero, o non le capisse, o non avesse il senso dell’umorismo. Ma, pragmaticamente, le accettava: facevano vendere.

Prima di quella prima assemblea di redazione, noi primi assunti, i “fondatori”, giravamo per i locali vuoti della redazione, situata al quarto piano del palazzo per uffici di piazza Indipendenza, dove avevano sede la redazione, la tipografia e la rotativa del Corriere dello Sport, gli uffici del distributore Parrini. I saloni erano privi di arredamento; sparse qua e là alcune vecchie sedie, abbandonate da chissà chi. Ma allo squallore di quei locali, si contrapponeva una frenetica allegria, un contagioso ottimismo. 

linoleum marroncino

In un clima un po’ surreale, passeggiando su un linoleum marroncino, dove le voci rimbombavano, dove bisognava fare attenzione a non inciampare sui blocchi delle prese per le scrivanie, che dovevano ancora arrivare, si faceva un fantastico giornale parlato.

Si ipotizzava uno scoop al giorno, si facevano le interviste impossibili – al papa, a un marziano, a dio – le più rivoluzionarie inchieste.

La notizia della prossima uscita di un nuovo quotidiano aveva scatenato la curiosità di tanti giovani aspiranti giornalisti, che si presentavano a piazza Indipendenza; Scalfari assegnò a Gigi Melega il compito di valutare quei giovani volenterosi. Melega organizzò quello che lui definiva il rotor: li buttava allo sbaraglio facendo scrivere loro decine e decine di articoli di cronaca su Roma e Milano, per la pagina che doveva chiamarsi Le Capitali. Ore e ore a passare agenzie, a scrivere e riscrivere articoletti di “bianca” o di “nera”, misurando le parole, togliendo inutili aggettivi, stando dentro le battute previste. Per poi sentirsi dire da Melega: “Sono una cagata, riscrivile”. 

giovani volenterosi

Quasi tutti, dopo un po’, abbandonarono, stroncati dai ritmi infernali imposti da Melega, dalla scoperta che fare il giornalista non era quel magico, affascinante mestiere: niente viaggi in paesi esotici, nelle grandi capitali, in alberghi a cinque stelle, inviati nei fronti caldi, a intervistare le più alte personalità della politica, della cultura, dello spettacolo, ma ore e ore inchiodati alla scrivania o nei sotterranei della tipografia davanti a un tipografo ringhioso. Quei pochi che hanno resistito sono diventati, col tempo, colonne portanti del giornale.

Si vedevano, di tanto in tanto, le prime firme: Barbato, Rocca, Bocca, Pirani, Terzani, Viola, Tutino, Angela, Valli.

Cominciarono ad arrivare i mobili, le scrivanie, le sedie, i telefoni. Scalfari si fece arredare una stanza, dove cominciò un via vai di nomi eccellenti: Palo Filo della Torre, un nobile italiano da anni nella capitale del Regno Unito, lasciò il suo castelletto a Hampstead per venire a farsi convincere di lasciare il suo ufficio di corrispondenza delSole 24 Ore, per poi tornare nella sua amata Londra, dove era uno dei pochi foreign correspondent ammessi in casa della regina Elisabetta, con la quale condivideva la passione per le corse dei cavalli.

alberoni e stille

Fece una fugace apparizione Alberoni; alla sua uscita Scalfari annunciò: “Forse è fatta”. Ma presto ricevette la rinuncia: Alberoni non se la sentiva di lasciare la sua rubrica in prima pagina del Corriere della Sera.

Di annunci “forse è fatta” ce ne furono parecchi, il più clamoroso fu quello riguardante Mikhail Kamenetzky, meglio noto come Ugo Stille, firma prestigiosa del Corriere della Sera, corrispondente da New York. Molto amico di Carlo Caracciolo, dopo un lungo corteggiamento annunciò: “Ora no, l’anno prossimo”. E dopo un anno firmò, ma con il contratto in mano tornò al Corriere per un cospicuo rilancio economico. Scalfari andò su tutte le furie, l’amicizia si ruppe fragorosamente. Poi, qualche settimana dopo, Scalfari e sua moglie arrivarono all’improvviso nel castelletto di Garavicchio, dove Caracciolo ospitava Stille. L’amicizia fu ricomposta, ma il passaggio a Repubblica divenne tabù.

Ma molte atre firme accettarono di lasciare potenti navi ammiraglia per tentare l’avventura con il piccolo vascello pirata di Repubblica: Miriam Mafai, Carlo Rivolta, Natalia Aspesi, Laura Lilli, Barbara Spinelli, Giovanni Valentini, Gianni Locatelli, Eraldo Gaffino. E tra i collaboratori Alberto Asor Rosa, Giorgio Ruffolo, Giuliano Amato, Enzo Forcella, Stefano Rodotà, Lucio Villari, Guido Neppi Modona. 

miracoli a paese sera

Quando cominciai a lavorare sui numeri zero, come futuro capo del settore grafico, ancora inesistente, mi resi conto che, al di là delle grandi firme, per l’organizzazione del lavoro stavamo messi molto male: non c’era una zincografia per i cliché, quindi per i disegni dovevo correre in via dei Taurini, alla zincografia di Paese Sera; la scena era sempre la stessa: 

«Ah Bevilà, nun se po’ fa. È troppo tardi, ciò troppo lavoro!».

«Mo’ me voi dì che dal mastro Nasini non si fanno più i miracoli!» 

E Nasini il miracolo ce lo faceva, sempre.

Le foto si potevano riprodurre solo su lastrine di plastica, con un pantografo a misure obbligate. Non c’era un archivio fotografico, un archivio di documentazione, una biblioteca.

evento mondano

In tipografia si creavano assembramenti: scendevano tutti i responsabili dei vari settori, e i giovani neo-assunti, tutti eccitati per vedere come il loro pezzetto di cronaca passava dal foglio scritto alla colonna di piombo e poi stampato sulla bozza. Arrivava la folla, attirata dall’evento mondano che la prossima uscita di Repubblica stava diventando. I curiosi si accalcavano davanti ai telai, sgomitavano, facevano domande inappropriate agli esterrefatti tipografi. Era il variegato mondo radical-chic romano: signore ingioiellate, intellettuali, attori del cinema e della televisione, maghe che con un pendolino predicevano un futuro radioso; fluttuavano con bicchieri di whisky in mano, tra abbracci affettuosi, baciamano, gridolini di gioia, nel puzzo del piombo fuso e dei solventi, il ritmico ticchettio delle linotype, il fragore della rotativa, 

I responsabili dei vari settori erano quasi tutti editorialisti, inviati; grandi scrittori, ottimi professionisti, abituati a dettare corrispondenze dai più lontani angoli della terra, o a scrivere articolo di fondo nel chiuso dei loro uffici. Di fronte ai problemi spiccioli di impostare tipograficamente una pagina, di calcolare gli spazi, di titolare, di chiudere il telaio nel più breve tempo possibile, mostravano allo stesso tempo un esagerato entusiasmo del neofita e l’imbarazzo di non saper niente, o quasi, delle tecniche tipografiche, di come si taglia un pezzo – non paroletta per paroletta. ma a righe intere e a blocchi. I tipografi reagivano sarcasticamente: pinze e tipometro in mano, chiedevano insistentemente indicazioni per l’apertura, il taglio, la civetta, la spalla, il fogliettone, e che corpo usare, e che giustezza, e che interlinea e quanti punti di margine …E di fronte a titoli o pezzi troppo lunghi si rivolgevano beffardi al proto: “Vedi se me poi rimedià una telaio de gomma!”.

ragazze splendide

Qualche bancone più in là, i redattori del Corriere dello Sport, navigati da anni di tipografia, assistevano sghignazzando. 

Scalfari scendeva in tipografia per chiudere la prima pagina, in mezzo a quella folla che girava per lo stabilimento curiosando, amici, interviste televisive in corso, splendide ragazze che si presentavano nella speranza di essere assunte – “le fiche gerarchiche”, sussurravamo sghignazzando – mente i telefoni squillavano in continuazione. In mezzo a tutto quel casino manteneva una calma olimpica; osservava attentamente il bozzone della prima pagina ondeggiando lievemente la testa, poi la licenziava esclamando “è una delizia”, stringeva la mano sporca d’inchiostro del tipografo capo-testata e tornava in redazione.

La sua risalita sortiva l’effetto di svuotare la tipografia di tutta la corte dei curiosi e finalmente rimanevano quei pochi veramente addetti alle chiusure, a svolgere le ultime operazioni di impaginazione.

risultati delle vendite

Ammiravamo la sua calma, eravamo affascinati dalla sua sicurezza. Il giornale era ancora un prodotto povero, solo venti pagine, considerato snob, un secondo giornale, fatto in maniera artigianale, che ancora stava cercando la sua collocazione.

Gli edicolanti non lo esponevano, tenevano la mazzetta ben nascosta sotto il bancone. “Tanto presto chiuderà”, dicevano.

“La Ripubblica”, veniva definito dai collegi dei giornali concorrenti, perché, con il suo organico ridotto al minimo, prendeva di tanto intanto clamorosi buchi.

La sera, dopo la prima tiratura, ci riunivamo nell’ufficio di Scalfari e aspettavamo i risultati delle vendite delle edicole notturne di Roma. Gli ispettori della distribuzione comunicavano i primi risultati: “A piazza San Silvestro siamo passati da 28 a 35 copie, a Termini da 75 a 90”.

Scalfari, in quei primi mesi di vendite non certo esaltanti, non batteva ciglio. Il giornale, totalmente innovativo per il formato, per l’approccio agli argomenti, per la grafica, stentava a entrare nelle abitudini di lettura degli italiani, affezionati ai loro vecchi quotidiani, ma la redazione poté lavorare in totale tranquillità, supportata dalla sicurezza del direttore, che mai trasmise la ben che minima preoccupazione sul successo dell’operazione. Anzi, nei discorsi alla redazione trasmetteva una ottimistica sicurezza: Repubblica sarebbe diventato un grande giornale, avrebbe rivaleggiato con le più grandi testate. Si sarebbe battuto, presto, alla pari, con il Corriere della Sera, l’avrebbe superato!.

la messa cantata

La maestosa figura, la folta barba bianca, gli conferivano l’aspetto di un profeta.

Ecco come lo descrive Miriam Mafai, in un articolo su Stampa Romana di quei giorni: “Tutti noi, dai più giovani ai più anziani, investimmo il meglio di noi stessi in quell’avventura, sotto la direzione di Eugenio Scalfari, che tutte le mattine, alle 10,30 precise, presiedeva la riunione di redazione, che qualcuno, con una punta di malignità, definiva la ‘messa cantata’. Sarà stata una messa cantata, ma l’officiante era di prima qualità. Scalfari aveva allora una cinquantina d’anni, ma aveva l’aspetto a l’autorità di un patriarca”. 

Ma le vendite, dopo un anno, non decollavano, i conti zoppicavano. Avremmo avuto, noi ignari redattori, più di un motivo per preoccuparci.

Alla Mondadori c’era allarme rosso: i manager dell’azienda, i revisori, gli account, i sorveglianti avevano nei confronti di Repubblica un atteggiamento altezzoso e critico; poca professionalità, spese superflue, chiusure in ritardo, eccessivo aumento della redazione, salita a 100 unità. La tiratura scesa sotto le 100 mila copie; i conti piangevano. Altro che raggiungere Il Corriere della Sera, il distacco era cresciuto di più di mezzo milione di copie.

tumulti e opinioni

Eppure….

Sappiamo come poi sono andate le cose. La Repubblica seppe dare risposte sotto la cappa del terrorismo, della crisi economica, dell’egemonia della Democrazia Cristiana, dell’evoluzione del Partito comunista, sconvolgendo il modo di fare i giornali. Era un giornale di sinistra, ma attento ai tumulti del movimento studentesco, aperto a opinioni in controtendenza. Si poteva permettere vignette di satira irrispettose, come quella di Forattini con Berlinguer con monocolo, in giacca da camera e pantofole, seduto in poltrona in un salottino borghese, che beve il tè e legge l’Unità, infastidito da una manifestazione di metalmeccanici che filtra dalla finestra. Scatenò una giostra di polemiche; Paolo Spriano scrisse infuriato a Scalfari: “Questa per me non è l’opera di un disegnatore satirico. Questa, sia consentito anche a me di usare il linguaggio del ‘comic’, è una cazzata. Anzi, una kazzata…”. Toccò a me, il giorno dopo, rimettere le cose a posto, con una vignetta dove Berlinguer, appesa la giacca da camera nell’attaccapanni, si infila la tuta da metalmeccanico. 

Questo modo di affrontare l’attualità, in anni plumbei, mescolando rigore e leggerezza contribuì alla ripresa della diffusione. Fu una rivoluzione, che Scalfari seppe pilotare cambiando in corsa tutte quelle idee che in teoria piacevano, come quella di rifarsi allo stile di Le Monde, calando il giornale nella complicata situazione italiana. 

Ma questa è una storia che altri debbono raccontare: io, spinto dalla smania di cercare altri stimoli, avevo lasciato la Repubblica per riprogettare graficamente altri giornali. 

(nell’immagine, un disegno di Franco Bevilacqua sulla tipografia di Repubblica)        

 

4 Commenti

  1. Grande giornale, grande direttore, grande squadra, grandi collaboratoti. Attraverso quel giornale, dal 1979, giovanissimo, e fino alla cacciata di Verdelli nel 2020, ho visto, letto e interpretato il mondo, spesso dissentendo, ma con “interlocutori” di grande valore professionale e morale.
    Grazie Eugenio Scalfari.

  2. Grazie Franco per questo bel ricordo, che mi permetterai di definire “in stile Repubblica” nel senso migliore. Anch’io ero tra gli acquirenti di quelle prime centomila copie e non ho smesso di esserlo ancora oggi, a torto o a ragione.

  3. L’importanza di conservare e trasmettere la storia di una testata giornalistica così imponente quale è La Repubblica in modo fruibile, conciso ma ugualmente dettagliato; ti sono grato Franco per essere lo scrigno di una professione ormai quasi perduta completamente.

  4. Ciao Franco, la tua ricostruzione della nascita di Repubblica (in gran parte, mi pare, ripresa dal tuo libro “Corpo Otto”)
    è proprio il miglior ricordo e omaggio a Scalfari, ma anche la diretta testimonianza del tuo valore professionale, grazie al quale hai validamente contribuito al successo del giornale.

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