di ALBERTO FERRIGOLO

Prima del 21 febbraio, quando sei arrivato a Kiev, eri mai stato in Ucraina? Come ti sei immerso nel conflitto?

 “No, non ero mai stato, pur conoscendo la situazione. La prima cosa che ho fatto è stata mettermi a studiare, tantissimo. E la prima necessità è stata costruirmi una rete di fonti in poco tempo. Poi, non so se per fortuna o esperienza o entrambe le cose, ho avuto due giorni prima la notizia che il 24 febbraio ci sarebbe stato l’attacco. Con un altro paio di colleghi italiani s’è deciso di non andare in Donbass, ma di rimanere a Kiev, nonostante la maggioranza delle fonti ritenesse che la guerra non sarebbe scoppiata nell’immediato a Kiev”. 

Nello Scavo, 50 anni, lavora ad Avvenire, il quotidiano della Conferenza episcopale italiana, dal 2001, dopo aver cominciato a metà anni ’90 come corrispondente dalla Sicilia, e prima ancora aver lavorato per La Sicilia di Catania come collaboratore a 19 anni. Quella in Ucraina non è la sua prima guerra, ma – “ad esclusione di quelle di mafia” – c’è stata la Jugoslavia nella seconda metà degli anni ’90 dove è andato da freelance, poi per Avvenire, “non sempre con continuità”, la Somalia, la guerra di confine tra Cambogia e Thailandia, Siria, Libia, il crollo dell’Urss, i Balcani, le principali crisi migratorie in Africa, Medioriente e in altri continenti. Ora è in Ucraina dalla vigilia del conflitto, con qualche pausa. Nel suo “Kiev” (Garzanti) scrive che la guerra vista da dentro “è un tormento”, perché non c’è una visione d’insieme, ma solo “un puzzle di elementi”. 

Cosa significa dover ricomporre i puzzle?

“In generale penso che questo sia il lavoro del giornalista per qualsiasi cosa si occupi: dalla cronaca bianca del quartierino alla cronaca internazionale. Una mia fissazione è provare a mettere in connessione i fatti e sempre ricostruire il contesto intorno ad essi. È un aspetto complicato, impegnativo, che richiede non solo esperienza ma anche molto, molto studio”. 

Nel caso dell’Ucraina che significato ha?

“Nel caso specifico si tratta d’una guerra dove si ha a disposizione il massimo della tecnologia, anche dal punto di vista informativo. È una info-war, si gioca su informazione, media, elettronica, tanti livelli. Ma è anche una guerra antichissima, si combatte nei fienili, ci sono gli scontri campali, gli assedi. Con una particolarità: a differenza delle tante guerre recenti, qui c’è un esercito contro un altro, in Europa. Non accadeva dalla Seconda Guerra Mondiale. Certo, anche la guerra nell’ex Jugoslavia, cruenta, brutale, con crimini documentati e altri per i quali s’attende giustizia, era una guerra molto interna, però la dinamica della guerra ucraina contiene già una serie di complicazioni. Come in tutti i conflitti, il giornalista che è sul campo riesce a raccontare secondo un proprio raggio d’azione. La linea d’orizzonte quella è, sono dieci chilometri dove cammini e riesci a muoverti per raccontare e testimoniare quel che accade all’interno. Con tanti limiti, perché naturalmente quando ti sparano addosso e ti bombardano i tuoi movimenti debbono tenerne conto. Ma lo scopo dev’esser quello, attraverso il pezzo di storia che stai documentando, provare a trovare elementi universali dentro e fuori il conflitto”. 

Fai un esempio.

“Documentare i crimini contro i diritti umani in un piccolo villaggio implica la necessità non solo di ricostruire la dinamica e la modalità con cui sono avvenuti, perché da quello capisci se si è trattato d’un capriccio, una rivalsa, una ritorsione, una vendetta di un gruppo di soldati, d’un solo soldato o d’una guarnigione. Ma serve anche sapere cosa sta avvenendo nel resto del Paese, per capire se quella dinamica è episodica oppure sistematica. In questa difficoltà, naturalmente, ci sono tante contraddizioni, tanti rischi, però consente di ricostruire un quadro d’insieme il più attendibile possibile”. 

Da un punto di vista tecnico, i vari tasselli del puzzle come li ricostruisci? Come organizzi il tuo lavoro in una ipotetica giornata?

“Diffido molto dei giornalisti che credono d’avere un metodo di lavoro universale, applicabile in ogni contesto, giorno per giorno, ora per ora. È la guerra che conduce il tuo lavoro, non si possono fare programmi precisi. Il bombardamento arriva quando e dove meno lo si aspetta. Devi solo cercare d’andare quanto più vicino possibile al punto, provando a capire quali sono le conseguenze del bombardamento e nella speranza di non finire tu stesso sotto i bombardamenti. L’altra cosa importante è riuscire ad ascoltare quante più voci possibile, non solo ufficiali, ma le voci dal terreno, i testimoni diretti. Che sono impressionati e impressionabili per quanto accaduto, ma che aiutano a fornire gli elementi di contesto e metterli in connessione il più possibile. Poi bisogna parlare molto con i colleghi giornalisti, italiani e stranieri, che si possono trovare nella stessa area o altrove. Il confronto aiuta a capire se alcune informazioni ottenute contengono elementi di verifica già consolidati o invece necessitano di approfondimento”. 

Niente regole, dunque.

“Se posso darmi una regola è quella di Egisto Corradi, uno dei grandi inviati del Novecento, che diceva che anche quando non sai esattamente cosa scrivere perché ti mancano gli elementi, e le storie che hai non sono sufficienti, la regola aurea è ‘camminare e camminare, tantissimo’. Macinare chilometri, spostarsi, incontrare le persone, che non è retorica romantica del nostro mestiere, ma è un dato di fatto che ha portato risultati. Questa è anche una guerra molto difficile da affrontare. Proprio un paio di settimane fa con un collega del Tg3 ci sono piovuti cinque missili addosso, a distanza di meno di 500 metri. E contemporaneamente le forze ucraine sparavano da terra contro questi missili e noi eravamo sulla loro linea di tiro. È accaduto in un momento imprevedibile, in cui avevamo trovato una zona tranquilla, lontana dai militari e dai combattimenti per metterci un po’ a lavorare. Lui doveva fare la diretta, io altro. La guerra cambia di continuo, come i programmi”.    

Ti appoggi a guide, fixer, segui l’esercito? Come ti muovi?

“Trovo i fixer importanti, a volte indispensabili, ma lavoro poco con loro perché cerco di muovermi il più possibile con appoggi sul terreno. Anche di persone del posto con cui si stabiliscono relazioni d’amicizia o fiducia. Si prova a costruire una rete di contatti e magari c’è chi t’accompagna in un determinato luogo, chi ti ospita per la notte, chi dà suggerimenti su un posto da raggiungere. In Ucraina ci si sposta ancora con i mezzi pubblici, treno, bus e minibus che continuano a circolare. Persino i taxi sono disposti a portarti fuori città. Per raggiungere le zone di combattimento vere e proprie, la presenza di un fixer, d’una guida, è molto importante. Quando è possibile lavoro anche con giornalisti ucraini, alcuni sono cronisti investigativi molto conosciuti già prima del conflitto. Voci autonome dai condizionamenti della propaganda, interna ed esterna. Però il fixer in certi momenti è indispensabile. Non possiamo noleggiare le auto in Ucraina, ad esempio. È pure pericoloso. Quando una strada viene sbarrata per un combattimento non c’è Googlemaps che ti possa indicare la via alternativa, i fixer sì. Trovo importante lavorare con loro quando è possibile e quando è sostenibile economicamente. Non tutte le testate dispongono delle stesse risorse, ma la necessità d’avere qualcuno che non solo conosca la lingua e ti aiuti a orientarti sul terreno è uguale per tutti”. 

L’esercito lo segui?

“Come tutti i giornalisti in Ucraina ho un permesso dello Stato maggiore dell’esercito di Kiev, siamo sotto legge marziale, ma da quando è cominciata la guerra non mi sono mai mosso con l’esercito. Ho avuto il permesso di raggiungere alcune aree, per esempio quella sulla trincea di Kherson e ci sono stato anche con i paramedici, abbiamo raccontato come si muovono e lavorano. Ma ci siamo mossi con mezzi nostri, senza scorta. Serve per tutela, ma può essere una forma di controllo”. 

Quali sono le regole?

“Quando si va in prima linea comandano i militari e devi attenerti a certe regole. Come per la pubblicazione delle immagini. È una cosa poco raccontata, ma uno dei problemi è che la legge marziale impone che quando viene colpita una infrastruttura strategica o considerata tale dal governo, le immagini non possono essere divulgate immediatamente. Quasi mai ci sono dirette tv da una caserma bombardata. Si può fare solo 24 ore dopo l’attacco. Prima, secondo le forze ucraine, favorirebbe il nemico, che può constatare il danneggiamento e magari aggiustare il tiro. È un aspetto opinabile: ci sono i satelliti, i droni e chi ha colpito ha vari mezzi per appurare la consistenza dei danni arrecati. Se poi sei in trincea, c’è necessità di coordinare gli spostamenti dei giornalisti con i militari per il solo fatto che, banalmente, il giornalista è un estraneo al combattimento e dev’esser riconoscibile per evitare che qualcuno gli spari addosso scambiandolo per un incursore”.

Qual è la cosa più difficile con cui ti sei trovato a far i conti? Quali i problemi professionali?

“Uno è la percezione che si ha in Italia del conflitto, che è stata molto alterata da una serie di manipolazioni, con un’influenza fortissima della parte russa. Ma direi soprattutto i tanti dubbi che vengono instillati sul nostro lavoro. C’è un limite che per noi non è valicabile, per esempio quello della pubblicazione o descrizione delle immagini che riguardano i crimini di guerra. Se durante l’esumazione dalle fosse comuni i corpi di alcune delle vittime hanno segni o oggetti addosso che indicano inequivocabilmente una violenza sessuale, quell’immagine non si può pubblicare.  Ma se descrivo con parole, c’è sempre regolarmente più d’uno che dice ‘mostrami le prove di quel che vai dicendo’. E se anche porto i documenti degli investigatori indipendenti delle Nazioni Unite o della Corte penale dell’Aja o delle ong, c’è sempre chi dice: ‘Ma è il tuo racconto, non c’è una prova evidente’. È ovvio che bisognerà aspettare i processi, ma questo è uno dei drammi”.

Al fondo c’è un problema di credibilità?

“C’è un continuo tentativo di minare la nostra credibilità, screditarci. Per altro per noi è già molto difficile, perché la propaganda esiste da una parte e dall’altra, quindi affrontiamo già con cautela una serie di notizie che ci vengono date. Il nostro lavoro è anche provare a districarci tra le migliaia di notizie che arrivano. È molto faticoso. Ma in un contesto in cui l’opinione pubblica, non solo italiana, è stata portata a credere che i giornalisti raccontino balle, e tra noi ci sono pure, io distinguo tra quelli in buona fede e quelli che non lo sono. Anche a me, in buona fede, può capitare di commettere un errore di valutazione o di prendere un granchio, diverso è chi lo fa strutturalmente da tempo. Una delle maggiori difficoltà è misurarsi con questo tipo di contestazioni, anche se gli umori diffusi sono uno stimolo per esser più precisi e più documentati. Alcuni dei nostri reportage sono stati persino acquisiti dagli investigatori internazionali”.

È ciò che accade che detta l’agenda, oppure cerchi anche percorsi alternativi?

“Ciascuno ha un proprio tono, cifra e approccio alla descrizione. Come dice Bernardo Valli “la nostra è la verità dell’istante’. Nel senso che posso raccontare quel che sto vedendo e documentando, poi magari tra un anno si potrebbe scoprire che quel dettaglio non era così significativo. O che poteva avere un altro significato. Io cerco di raccontare le vittime, soprattutto. Racconto il conflitto, sono in prima linea, vado dove ci sono i bombardamenti e gli spari, e talvolta penso che anche i soldati sono vittime dei conflitti. Non solo perché muoiono, ma perché le motivazioni che vengono utilizzate per convincerli e galvanizzarli sono in molte circostanze artefatte. Per me è essenziale riuscire a fornire al lettore la percezione e la dimensione umana del conflitto, proprio perché la guerra non finisce quando pensiamo che la guerra finisce. Se proviamo a riflettere, negli ultimi trent’anni, nessuna di queste guerre – per quanto concluse con pace, resa, armistizio, negoziati – ha portato una pacificazione anche interiore. Restano addosso ferite psicologiche, affettive, sentimentali, emotive, talmente forti e profonde che certo non guariscono con la firma d’un trattato di pace”.

La figura dell’inviato e del corrispondente di guerra è tornata d’attualità?

“Rispondo con una domanda: proviamo a immaginare questa guerra senza la testimonianza dei giornalisti sul posto, che si chiamino inviati, corrispondenti, freelance. Cosa sarebbe stata la percezione di questo conflitto? Al tempo di internet, dell’infodemia, della bulimia informativa, ritorna anche prepotentemente, non solo di moda, perché speriamo non sia solo tale, la necessità d’avere qualcuno che vada, veda, ascolti e lo faccia per te. Poi si può decidere fino a che punto fidarsi. Ognuno di noi ha una sua storia e la sua credibilità matura di giorno in giorno. Posso esser contestato oggi, ma l’episodio che mi viene contestato adesso, magari diventa incontrovertibile tra una settimana. I lettori se ne rendono conto e noi ce ne accorgiamo dai numeri delle vendite, dall’attenzione sui social network per ciò che scriviamo, le interazioni che riceviamo, dal tempo e dalla frequenza di lettura che siamo in grado di calcolare con precisione. Mi auguro che si capisca che il giornalista deve esser soprattutto un giornalista che va dove le cose accadono. Può esser il Consiglio comunale del proprio paese, il cantiere stradale come la grande cronaca internazionale, non riguarda solo l’inviato di guerra”.

È vero che dal conflitto ucraino si sta affacciando una nuova generazione di giornalisti di guerra?

“Ho 50 anni e certo non posso annoverarmi come giovane, ma osservo con molto interesse, molta curiosità e affetto la nuova generazione, perché c’è effettivamente una nuova leva di cronisti e corrispondenti di guerra, di cronaca internazionale che si sta formando in questo conflitto. Che ha superato e sta superando anche alcune ingenuità che possono capitare quando si va in guerra per la prima volta e non si ha molta esperienza, ma vedo ragazzi molto motivati, coraggiosi, molto competenti. Non è che un bene. Per tutti e per il giornalismo”. 

(nella foto, Nello Scavo) 

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