di ALBERTO FERRIGOLO
“Quando a febbraio è scoppiato il conflitto mi trovavo a Gaza. Mi hanno richiamata, ho chiuso in fretta la trasferta di Gaza, sono atterrata in Italia, sono passata in redazione, ho preso il giubbetto antiproiettile e il giorno dopo sono partita per l’Ucraina dove sono arrivata ai primi di marzo e ci sono rimasta, nell’ambito di quattro trasferte, fino a metà luglio”. Classe 1984, Azzurra Meringolo è inviata di esteri del Giornale Radio Rai, si occupa soprattutto di questioni mediorientali, laurea e dottorato in Relazioni internazionali, ha al proprio attivo un paio di libri, di cui il più recente è “I ragazzi di piazza Tahrir” sulla primavera araba e qualche premio giornalistico. Tra le esperienze prima della Rai e della conduzione di Radio 3 Mondo, anche una proficua collaborazione con Reset, la rivista diretta da Giancarlo Bosetti, che oggi ricorda come “un periodo felice”.
Una volta arrivata in Ucraina, come hai dovuto e potuto organizzare il tuo lavoro?
“Soprattutto nella prima trasferta, entrando dalla Polonia nella parte occidentale del Paese, il mio lavoro è stato in primo luogo il racconto della fuga, quindi i profughi, le famiglie, i bambini, le mamme che arrivavano lì. Ci siamo poi spostati a Leopoli, grande epicentro dell’accoglienza, e quando abbiamo visto che essenzialmente da Kiev si stavano allontanando i russi, a fine marzo, siamo arrivati a Kiev e abbiamo raccontato la liberazione. Siamo stati lì i primi giorni in cui tutta la regione di Kiev è stata liberata, poi nella regione di Cernhiv mentre in una trasferta successiva s’è raccontata la prima liberazione di Kharkiv e abbiamo visto le persone tornare da fuori, quelle nella metropolitana far ritorno nelle loro case. Poi però la città è stata nuovamente presa di mira dai bombardamenti dei russi e c’è stata la seconda fase della riconquista. Nel corso dell’ultima trasferta ci siamo dedicati invece alla parte più meridionale della regione, avvicinandoci al Donbass per raccontare essenzialmente quella che sembrava la controffensiva su Kherson, infine abbiamo puntato su Zaporižžja per la questione nucleare della centrale”.
Com’è passare dai Paesi Arabi all’Ucraina?
“È come passare dalle periferie buie dell’informazione e essere catapultati sotto i riflettori. Dalle periferie devi sempre trovare un’angolatura particolare per poter fare entrare piccole informazioni in giornali in genere pieni di grandi notizie. Per cercare di dar luce a ciò che luce non ha. Mentre in Ucraina su ogni notizia c’è sempre stata grande attenzione. È stata la prima volta che mi sono trovata nel mezzo d’un conflitto in un contesto di crisi seguito con così tanta attenzione. A Gaza, in altri contesti arabi, non c’è mai stata. Si è sempre trattato di fare lo sforzo di dar luce a notizie che, pur avendo una grande importanza, non riescono a entrare nella narrativa con grade facilità”.
Dal punto di vista tecnico com’è stato l’impatto con questo tipo di lavoro in Ucraina?
“Ci siamo organizzati cercando di sentire le notizie e l’evoluzione di un conflitto che in ogni parte del Paese ha intensità e dinamiche totalmente diverse l’una dall’altra. Siamo entrati nel Paese attraverso la Polonia, la Moldavia, abbiamo attraversato il confine dell’Ucraina a piedi dove ci aspettava un driver. I driver in età d’arruolamento il confine non lo possono varcare, a piedi è l’unico modo. Da lì abbiamo percorso il Paese dapprima in treno, treni su cui si viaggiava solo al buio, treni che servivano anche per rifornire il fronte. Successivamente, dopo le diverse fasi di liberazione, abbiamo girato anche in auto. Ci siamo affidati a producer locali dopo una lunga cernita di diversi profili, perché visto l’arrivo numeroso di giornalisti, in molti si sono improvvisati producer. Nel mio caso siamo stati molto fortunati perché dopo una lunga ricerca della figura adatta ne abbiamo individuate due che ci hanno accompagnato in tutte le trasferte”.
Com’è avvenuta la selezione?
“La nostra è una happyanding story, dovuta ad una lunga ricerca fatta consultando varie organizzazioni internazionali, testate estere, colleghi che anni fa erano stati qui prima di me. E con loro ci siamo mossi dentro il Paese.
Difficoltà?
“Tra quelle da affrontare, specie tra fine aprile e maggio, c’è stata la scarsità della benzina, una questione da risolvere enorme. Abbiamo spesso girato con macchine piene zeppe di taniche”.
Dove ti sei appoggiata?
“Una questione un po’ strategica è stata la decisione sugli alberghi. In un primo momento nella parte occidentale del Paese non c’erano alloggi, visti i tanti profughi che avevano riparato in questa zona. Successivamente abbiamo sempre scelto zone che non potessero diventare target, obiettivi, quindi lontano dai fiumi, dai ponti, dalle sedi militari”.
Qual è, su cosa si basa e s’è basata la tua rete di relazioni, contatti, informazioni sul posto? Te la sei dovuta costruire da sola, te l’eri preparata, l’hai ereditata da chi era stato già prima di te?
“Per me l’Ucraina era un contesto nuovo. Mi sono occupata soprattutto di Medioriente, quindi me la sono dovuta costruire tramite la rete delle organizzazioni internazionali e umanitarie, i think tank italiani e internazionali che hanno più o meno ramificazioni anche su questioni ucraine. Poi c’è la rete giornalistica internazionale a cui sempre e comunque faccio riferimento”.
Ma mentre costruivi la tua rete di rapporti trasmettevi anche le cronache?
“Abbiamo trasmesso da subito, già dal confine. Anche grazie al fatto che abbiamo ricevuto in tempi abbastanza rapidi la carta per la stampa, l’accredito ufficiale che ci ha consentito di girare la notte, durante il coprifuoco, con agilità”.
Che tipo di trasmissioni avete fatto all’inizio? Che storie hai raccontato?
“Sono arrivata dopo che già dei miei colleghi avevano coperto la prima fase dello scoppio del conflitto e per motivi di sicurezza sono stati poi evacuati. La prima cosa che mi sono trovata a raccontare è stata l’emergenza umanitaria, rifacendo in senso inverso il passaggio dall’Ucraina alla Polonia. Dapprima abbiamo fatto due giornate di trasmissione in diretta per Radio anch’io dalla stazione di Przemysl, il centro dell’accoglienza dei profughi in Polonia e poi sono entrata in Ucraina e ho subito cominciato a raccontare questa fuga, l’accoglienza di Leopoli con servizi il 7 marzo per tutti i giornali radio principali, le edizioni delle 8, delle 13 e delle 19 in diretta da Leopoli, parlando della difficoltà di salire sui treni e di come organizzarsi per fuggire, le questioni della logistica, di come ci si prepara ad andare in guerra, i primi funerali. Infine la liberazione dei territori, i crimini che emergevano via via che venivano liberati. Poi abbiamo cercato d’affrontare le questioni politiche interne al Paese, della comunità internazionale e la prima visita della presidente della Commissione europea Von der Leyen, quando ha consegnato il questionario per l’ammissione all’Ue nel bunker di Zelensky, dove siamo anche entrati. Nelle successive trasferte mi sono concentrata anche su altri due temi: il tentativo dei russi di annichilire l’identità ucraina, andando in posti simbolici oggetto e obiettivo degli attacchi dal punto di vista culturale ma anche da quello dell’istruzione, della formazione; l’altro tema che ho cercato di trattare è stato il percorso di riforme che l’Ucraina sta affrontando per procedere all’integrazione con la Ue, ovviamente nei momenti in cui la cronaca ha dato la possibilità di farlo”.
Hai avuto modo di prepararti prima di arrivare in Ucraina? Hai fatto un corso sicurezza prima di partire?
“Subito dopo la prima trasferta la Rai si è attivata per organizzare dei corsi e quindi una volta rientrata li ho potuti seguire prima di partire per le successive. Un corso di sicurezza in zone di crisi, di primo soccorso, con un’appendice ad hoc sull’Ucraina e questa guerra: di che cellulare armarsi, cosa fare per non essere tracciati, grande attenzione è stata dedicata alle mine, come riconoscerle, una sessione del corso molto specifica”.
È il conflitto che detta l’agenda? Tu cosa ti prefiggi di raccontare ogni giorno?
“Il conflitto detta l’agenda delle notizie, ma devo dire che siamo riusciti sempre, tranne rarissimi casi, ogni giorno a raccontare almeno una storia legata o laterale al conflitto, non di cronaca stretta, riuscendo a raccontare anche altri aspetti inediti della guerra”.
La radio offre possibilità in più rispetto ad altri media? Qual è la sua specificità?
“La radio innanzitutto è immediata e ti porta sul posto con immediatezza. Essendo meno invadente come mezzo consente d’intervistare anche persone che magari davanti alla telecamera non parlerebbero o faticherebbero a farlo. Questo aiuta, anche perché in un contesto di guerra molte immagini le autorità militari stesse chiedono di non mostrarle, come quelle degli attacchi. Questo è stato un tema molto discusso tra i giornalisti internazionali e direttamente con le autorità ucraine. In questo la radio è più agile, se la cava meglio”.
Dall’inizio ad oggi com’è cambiato il modo di lavorare in relazione all’evoluzione del conflitto?
“Di sicuro abbiamo ora una lista e una rete di fonti, verificato nei mesi, che è più larga ed è un punto di riferimento. E poi abbiamo ben capito le direttrici, i problemi, le questioni attorno a cui s’attendono gli sviluppi. La cosa che più colpisce, semmai, è vedere il trascinarsi del conflitto un giorno dopo l’altro, di cui non si intravvede la via d’uscita o la fine. Giornalisticamente, questo significa dover trovare delle chiavi di lettura e non più il singolo episodio o fatto”.
Quale è stato il momento più difficile di questi mesi?
“Ce ne sono stati diversi, ma due forse ci hanno più colpito, quando a Kharkiv – la realtà più dura vissuta – siamo andati a fare un servizio al centro d’aiuti e mentre eravamo lì è arrivato l’allarme. Avevano appena colpito il centro, ma stavano arrivando altri missili e siamo dovuti scappare. Dopo qualche ora l’hanno effettivamente bombardato e colpito in pieno. Il secondo momento riguarda la notizia che uno degli alberghi dove eravamo è poi stato colpito. Queste sono in genere situazioni in cui come giornalista ti fermi, ti guardi in faccia con i colleghi e ti lasci andare a una serie di riflessioni che vanno oltre il professionale e inizi a vedere e capire cos’è il conflitto. Ci sono poi momenti molto più difficili, come a Bucha, Borodjanka e Irpin, in cui devi improvvisamente interpretare una realtà su cui non puoi dare delle verità. Vedevamo che si trattava di un contesto dove erano stati commessi dei crimini ma non riuscivamo a spiegare chi aveva commesso cosa, quando e perché. E invece c’era l’urgenza di spiegare tutto subito. E li giornalisticamente è molto difficile. Capire, incrociare le fonti, parlare con le vittime, farsi raccontare.
Altri temi trattati?
“Un altro tema trattato, perché l’ho sentito molto, sono state le violenze sulle donne, che ho chiamato la ‘perversione del conflitto’, che s’è vista soprattutto a Bucha. Ed è stato molto complesso parlare con le vittime, per loro era vivere un secondo trauma, e non volevano raccontare le violenze subite. Da donna posso solo capire. Questi sono i veri temi difficili da rappresentare. Come ti avvicini a loro, come le racconti, quali sono le fonti…?
Altra cosa sempre difficile, è che noi abbiamo raccontato la guerra dal lato ucraino, abbiamo convissuto con loro per diverse settimane e alla fine ci siamo trovati a vivere le loro stesse problematiche, ansie, paure, le conseguenze della guerra sulla nostra pelle: crollava un ponte e non potevi né avanzare né tornare indietro ma in tutto ciò bisogna continuare a mantenere l’occhio giornalistico vigile, cercando di raccontare cose vere e verificaste. Anche da parte ucraina la propaganda è stato uno strumento della guerra. Un’ulteriore difficoltà che continuerà fino alla fine”.
Hai mai paura?
”La paura è parte delle giornate, ma è un campanello d’allarme. I primi tempi avevamo paura anche quando suonavano le sirene, perché non è normale assuefarsi al loro suono e far finta che vada tutto bene. Ma non abbiamo mai avuto momenti di panico, siamo stati capaci di gestire l’ansia che può sopraffare. Anche se nei momenti cruenti del conflitto, con le esplosioni vicine, ci siamo interrogati su come uscire dal paese, se avevamo benzina a sufficienza, che strade fare? Discorsi fatti anche in un clima rilassato, ben prima di trovarci nel bel mezzo di un conflitto a fuoco e capire che la guerra era arrivata anche per noi”.
È difficile per una donna fare l’inviata di guerra? C’è una specificità o una sensibilità diversa?
“Sinceramente non lo penso. Ma ritengo che comunque adottare una lente di genere, il che non significa avere giornaliste donne sul terreno, ce ne sono tante in questo conflitto, solo per andare a raccontare degli altri aspetti che includano le donne, che in questo conflitto sono state raccontate pochissimo, può aiutare a far capire di più. Includere il racconto delle donne nel conflitto penso sia utile per capirlo e interpretarlo. In che modo i bambini restano a casa da scuola è un tema che è stato raccontato pochissimo. Gli aspetti non combact e prettamente militari sono importanti da analizzare”.
Quando rientri in Italia, come vivi l’assenza del conflitto e la distanza da quei i luoghi?
“All’inizio malissimo, ma devo dire che il viaggio di rientro è così lungo che un po’ ci si decomprime. Ma sono storie così dense e intense che non riesci a distaccartene. Stai sempre lì a cercare di capire cosa è successo, come sta la famiglia dove sei andato, l’albergo o la citta dov’eri… Sei lì sempre”.
(nella foto, Azzurra Meringolo)