di MICHELE MEZZA
Che cosa si può fare per aumentare la possibilità che una storia venga letta dal massimo numero di utenti esattamente nel momento in cui viene pubblicata on line ?
Questa è la domanda attorno a cui si è riorganizzato il New York Times, spiega Jill Abramson, ex direttrice del giornale, nel suo saggio Mercanti di Verità ( Sellerio editore).
Per rispondere a quella domanda, scrive la Abramson, bisognava avere competenze ed esperienze che non erano reperibili nella redazione della testata più famosa del mondo. Così inizia un processo di riorganizzazione che rende il New York Times, non solo uno degli apparati editoriali più moderni, ma soprattutto un protagonista sul mercato dei software e degli hardware giornalistici che vengono venduti anche agli altri gruppi editoriali.
funzioni più avanzate
Snodo di questo processo sono figure anfibie, come le chiama la Abramson, che stanno sia nella rete che nelle redazioni e trasferiscono saperi e pratiche dall’una alle altre. In questo passaggio si gioca il futuro della nostra categoria.
In questa chiave appare davvero singolare lo stupore con cui qualche collega ha accolto la proposta di integrare a pieno titolo nelle redazioni figure come i social media manager. Si tratta di colleghi a pieno titolo, che oggi svolgono le funzioni più avanzate e delicate in un sistema giornalistico di convergenza.
Non è solo questione di capacità nel trattare la notizia, come il vice presidente dell’Ordine Angelo Baiguini, che ha avanzato la proposta del riconoscimento come giornalisti delle figure di supporto digitale, ha affermato per rendere coerente la sua proposta con i lineamenti giuridici dell’Ordine. Il lavoro sul testo e sull’impaginazione che viene fatto da un addetto alla pubblicazione on line per certi versi è ancora più profondo e dettagliato rispetto all’attività tradizionale di stampa. Per ottimizzare e intensificare la diffusione digitale dei contenuti, collegandoli a sofisticati riflessi pisco tecnologici, come accade ormai in rete, bisogna inevitabilmente conoscerli ed adattarli ai linguaggi del web.
sistemi intelligenti
Ma in realtà un social media manager, così come un responsabile delle memorie e dei sistemi cloud, o delle connessioni e dell’accesso agli archivi del web, fa molto di più. Selezione e valida la combinazione di sistemi intelligenti e di funzioni automatiche che, in base al machine learning, continuano a crescere, mutando di intensità e natura rispetto alle attività iniziali. Dunque queste figure rappresentano un sapere che assicura trasparenza ed autonomia alla redazione, permettendole, questo è il salto di qualità, di poter negoziare direttamente con gli editori e i fornitori la dinamica delle dotazioni tecnologiche.
Un social media manager oggi è molto di più di quello che decine di anni fa era un segretario di redazione. Perché quella figura apparentemente gestionale e amministrativa venne riservata a giornalisti? Proprio perchè i colleghi esperti di allora ben compresero che attraverso quel supporto si governava la vita redazionale e si interloquiva con i segmenti manageriali della proprietà, aquisendo informazioni e influendo su decisioni strategiche.
l’informazione, dove arriva
Ma oggi il passaggio è ancora più strategico.
Da una parte abbiamo i processi di implementazione digitale che inesorabilmente spostano quote di lavoro dal campo artigianale a quello dell’automatizzazione. E in questa dinamica diventa essenziale avere figure in grado, giorno per giorno, di misurare questo trasferimento, assicurandone una corretta applicazione e interpretazione.
Poi abbiamo il rapporto con gli utenti, ossia quella preziosissima analisi dei dati che ogni singolo cliente del sistema editoriale scambia con la redazione. Disporre di profili in grado di trattare questa materia, interpretando, separatamente dalle visioni proprietarie, le tendenze e le domande della moltitudine di utenti, in un sistema predittivo, come è oggi una testata, è irrinunciabile. Come spiegava già mezzo secolo fa Umberto Eco, “l’informazione si decide dove arriva e non da dove parte”. E purtroppo i giornalisti sono troppo incastonati nei luoghi dove parte, dove si fabbrica, dove si confezionano i prodotti informativi e ancora poco lì dove si incontrano non tanto lettori passivi, ma veri co-protagonisti del sistema informativo che sono appunti gli utenti.
domande e desideri
I social media manager, insieme ai responsabili del marketing strategico e ai promoter dei contenuti, o ancora ai trend setter, sono proprio coloro che, spiega la Abramson, “abbinano ogni singola notizia con ogni singolo utente”, ed hanno la testa nel giornalismo immersivo , che si nutre delle domande e dei desideri della platea di lettori.
Dall’altro campo, abbiamo uno scenario in cui le notizie, le fonti, i documenti primari, sono costantemente insidiati e compromessi dalla pressione degli interessi in campo. Lo vediamo nel terribile laboratorio della guerra in Ucraina, dove ogni filmato, ogni fotografia, ogni rilevazione satellitare è attaccata e manomessa. E ogni giornalista si trova a dover giostrare, in real time con questi file ambigui e spuri. Solo la disponibilità di una comunità professionale autonoma e capace, in grado di leggere e decifrare questi documenti digitali verificandone l’attendibilità ci dà una sicurezza che altrimenti rallenta e paralizza il lavoro.
Nel saggio “Net War,Il giornalismo sta cambiando la guerra ma la guerra ha cambiato i giornalisti” ( Donzelli), riporto una serie di commistioni professionali che hanno costretto gli inviati a maneggiare fonti di seconda mano che alluvionamente riempivano le piattaforme di Telegram e Twitter. Pensiamo solo ai filmati dei combattimenti, alle riprese nelle cantine dei palazzi bombardati, alla visione in diretta degli attacchi alle postazioni di artiglieria di uno o dell’altro fronte.
cyber security
Non bastava essere esperti e tanto meno avere consulenti accanto, bisognava avere la certezza professionale che quei files, quei filmati, quei flussi di documenti, potessero essere riconosciuti per la provenienza e l’originalità. Il tutto in real time.
La cosi detta guerra ibrida, teorizzata dal capo di stato maggiore Valery Gerasimov, che teorizza che ormai si combatta permanentemente, interferendo nelle psicologie dell’opinione pubblica dei paesi avversari, costringe inevitabilmente il giornalismo ad essere omologato alla cyber security, a forme di cautela e contrasto rispetto a queste interferenze. Le notizie sono le munizioni, i siti web l’artiglieria, i bot, la cavalleria. Con quali armi combattiamo per la nostra autonomia e centralità come giornalisti, se non la capacita di integrare e amalgamare in redazione saperi e competenze complesse e diversificate?
teoria dei due titoli
Lo stesso vale per le procedure di diffusione della notizia. La Abramson parla della teoria dei due titoli, ossia di come ogni notizia ormai nelle redazioni americane sia testata con accorgimenti che ne misurano la viralità. Questo processo è sempre più supportato da software che mirano a riprodurre e poi a sostituire il lavoro del giornalista, come sta accadendo nelle agenzie e in molte redazioni. Questa applicazione deve essere permanentemente negoziata e riconfigurata per dare al giornalista la centralità nel controllo dei saperi da rilasciare alla macchina. Come accade nelle cliniche e ospedali dove le nuove analisi biologiche e biotecnologiche, come le risonanze magnetiche dinamiche di nuova generazione, sono realizzate sempre mediante una co-gestione fra il tecnico e il medico, che continuamente autorizza i passaggi occasionalmente automatici. Un medico che è titolare di queste capacità e conoscenze tecniche come e più del tecnico dell’azienda fornitrice.
La partita si gioca adesso, ovunque, e su tutto il fronte. O abbiamo la lucidità per rendere coerente con il XXI secolo la figura del mediatore dell’informazione, oppure ci avvieremo ad essere misurati dal CPM, un codice che già nelle redazioni delle testate americane più estremi misura giorno per giorno l’azione del redattore, la sua retribuzione giornaliera e i click prodotti. Il cosi detto indice di licenziabilità.