Si intitola “E’ la guerra, bellezza”. In questo libro, Paesi Edizioni, quindici inviati di guerra italiani fra i più prestigiosi “raccontano la prima linea dell’informazione”. Si tratta di Francesca Mannocchi, Alberto Negri, Andrea Purgatori, Giuliana Sgrena, Lorenzo Cremonesi, Fausto Biloslavo, Gian Micalessin, Francesco Semprini, Ugo Tramballi, Giampaolo Cadalanu, Giordano Stabile, Cristiano Tinazzi, Monica Prosino, Domenico Quirico e Stefania Battistini.
A Giampaolo Cadalanu, abbiamo chiesto:
E’ l’ennesimo libro di celebrazione autobiografica dei giornalisti?
“No, non credo proprio. Per quanto mi riguarda, l’idea è quella di chiarire i meccanismi del mestiere, che sono sempre delicati, ma in un momento come questo lo diventano ancora di più”.
Perché? Che cosa c’è di diverso nelle guerre, oggi?
“Più che le guerre, è cambiato il contesto. Le informazioni sono ormai un diluvio, ma è difficile distinguere quelle buone dalle altre. Ed è cambiata l’editoria…”.
In che modo c’entra questo?
“Gli editori fanno sempre meno soldi, per incapacità e per scarsa voglia di investire nell’innovazione. Così sono sempre più propensi a ospitare le corrispondenze di giovanissimi sottopagati, dotati di coraggio e spirito di sacrificio, ma a volte privi del background indispensabile per evitare le trappole della guerra”.
Qualcuno dirà che si ripete la divisione di sempre, fra i privilegiati con un contratto e i disperati che lo cercano. E’ così?
“Questo è un problema dell’editoria in generale, legato anche alla cultura poco imprenditoriale degli editori. Per me la spaccatura significativa è invece fra giornalisti capaci e giornalisti ignoranti. E questi ultimi sono sempre esposti alle bugie e alle manipolazioni, a prescindere dalle loro condizioni contrattuali”.
Insomma, il giornalismo di guerra è un percorso a ostacoli, pieno di fossati e trabocchetti?
“Senza dubbio in un conflitto convincere un giornalista conta più che distruggere un carro armato nemico. Per cui la strada dell’informazione è piena di bugie. I giornalisti onesti sono quelli che cercano di evitarne il più possibile, e che magari ammettono di aver fatto errori. Chi dice di non essere mai caduto in trappola, credo di poterlo chiamare illuso. O bugiardo. Nel libro faccio anche esempi di quello che è capitato a me”.
Vuoi dire che l’informazione di guerra è sempre falsa?
“No, voglio dire che come tutte le attività umane può essere imprecisa, incompleta, fallace. Ma è l’unica risorsa che abbiamo, a meno di voler credere ai bollettini ufficiali, menzogneri per definizione. E ricordiamoci che gli inviati di guerra combattono su due fronti…”.
Che cosa intendi dire?
“Che spesso la testimonianza diretta, ottenuta anche con rischi seri, viene messa da parte per lasciar spazio alla versione ‘mainstream’ degli avvenimenti. Se le grandi agenzie internazionali descrivono le vicende belliche in un certo modo, il singolo reporter, che pure ha visto una realtà diversa, ha serie difficoltà a farsi sostenere dal suo giornale. Le litigate in questo senso sono quotidiane. A me capitò di sentirmi chiedere un pezzo sulle ‘fosse comuni’ di Tripoli, che invece erano semplici sepolture individuali. O di dover raccontare un terrorista bambino che bambino non era. La versione più drammatica – anche se sbagliata – sembrava più attraente per il lettore. Storielle del genere – il libro ne è pieno – sono divertenti a leggerle dopo, ma sul campo sono parecchio irritanti”.
Sono peggio i caporedattori conformisti, o i cecchini delle parti in combattimento?
“Meglio che a questa domanda non risponda…”.
Ma come, non cercano tutti lo scoop? Una versione originale non serve a battere la concorrenza?
“Macché. Avere una visione dei fatti diversa dagli altri è un incubo, per chi guida i giornali. La meta più ambita è sempre il pareggio”.
(nella foto, Giampaolo Cadalanu)