di CAMILLA FOLENA

Carlotta Rossignoli, ventitreenne veronese, già insignita, per i risultati scolastici del liceo, della menzione di Cavaliere del Lavoro dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, meno di una settimana fa si laurea in anticipo di circa sei mesi in Medicina e Chirurgia all’Università privata Vita-Salute San Raffaele di Milano. Diversi legacy media italiani riportano la sua storia, “di merito ed eccellenza”, su carta stampata e online, tessendo le lodi della giovane donna che, oltre alla laurea anzitempo, riesce anche a fare la modella/influencer e a presentare un programma sportivo in una televisione locale. Un altro quotidiano decide di dare spazio ad una riflessione di una sua giornalista. Articolo che esce sotto la sezione “commenti” e punta il dito contro la narrativa proposta dalla stampa mainstream. Responsabile – si sostiene nel pezzo – di incoraggiare da un lato una “performatività” ai limiti della tossicità, e dall’altro, soprattutto, di porre un errato accento sul concetto di merito. 

clamore crescente

Questi, in brevissimo, i fatti. La vicenda assume, nell’arco di poche ore, un clamore crescente, soprattutto nella sfera digitale. Gran parte delle persone online sentono di dover dare la propria opinione – a favore o meno di Rossignoli – sulla vicenda. E già qui, mediaticamente parlando, anche a chi commenta positivamente per supportare la giovane, sfugge un elemento centrale: i social media non hanno generato in alcun modo “una tormenta di polemiche”. E da essi non è partita alcuna campagna di “delegittimazione” – come si sostiene in un altro articolo d’opinione – contro la giovane donna. Cartesio ricorderebbe che “il dubbio è l’inizio di ogni conoscenza” e Voltaire che “il dubbio è scomodo, ma solo gli stupidi non ne hanno”. Inoltre, spostando il dibattito della vicenda su un piano di realtà, i social media non possono in alcun modo insorgere, non essendo, di per sé, entità eteree ma prodotto di ciò che ciascuno di noi decide di essere e agire online. Ciò che, inoltre, a un dibattito spesso mistificato, certamente polarizzato, è sfuggito, è che le diverse persone insorte sulle piattaforme non si sono rivoltate in primo luogo contro Rossignoli, cosa che invece comincia ad accadere adesso con il susseguirsi degli sviluppi sulla vicenda; bensì, contro l’informazione italiana. 

misoginia e privilegi

“Secondo me il vero punto della vicenda di Carlotta Rossignoli non è chiaro. L’imputato è il modo di fare giornalismo, alla rincorsa di click, senza alcuna verifica. Questo è il problema, non la ragazza. Lei non avrebbe dovuto trovare un megafono pronto. Invece ne ha trovati vari”.

“Il caso di Carlotta Rossignoli è un esempio lampante di come passare dalla critica alla società alla misoginia è un attimo. Il problema qui sono i suoi privilegi e un giornalismo da quattro soldi, non le lampade o i selfie in costume che si fa”.

“Comunque il problema non è neanche tanto Carlotta Rossignoli di per sé, il problema è che dei giornali nazionali credano davvero di fare informazione scrivendo di casi del genere senza neanche verificare”.

stampa “Ammalata”

Da quel che emerge dai tweet raccolti (e ve ne sarebbero molti altri), difatti, ciò che ha maggiormente disturbato quanti hanno deciso di esprimersi sulla vicenda, non è la dedizione allo studio della singola brillante e/o iper-supportata studentessa, o la sua voglia di eccellere e di farlo anche in fretta. Tutte questioni che non interessa dibattere o investigare in questa sede. Ciò che è risultato per molti insopportabile è il ritratto redatto da una stampa “ammalata”, che altro non è – come già emerso in precedenza – che specchio della società tutta. Riponendo dunque per un momento nel cassetto malumori, antipatie, rancori o invidie umane amplificate dalla pervasività dell’ecosistema digitale, polarizzazioni e via discorrendo, occorrerebbe spacchettare e approfondire il principale nodo che ha contribuito, e continua a contribuire, al clamore condiviso sul caso Rossignoli. Difatti, se sull’abbaglio del merito molto è già stato scritto, e non solo dall’universo giornalistico, basti pensare al pensiero accademico di Thomas Piketty in “Capitale e ideologie” o a quello di Micheal Sanders nel suo “La tirannia del merito”; da aggiungere al quadro sulla meritocrazia, c’è forse solo la riflessione proposta dal Santo Padre nel 2017 a Genova: “La meritocrazia, al di là della buona fede dei tanti che la invocano, sta diventando una legittimazione etica della disuguaglianza. Il nuovo capitalismo tramite la meritocrazia dà una veste morale alla disuguaglianza, perché interpreta i talenti delle persone non come un dono: il talento non è un dono secondo questa interpretazione, è un merito, determinando un sistema di vantaggi e svantaggi cumulativi. Così, se due bambini alla nascita nascono diversi per talenti o opportunità sociali ed economiche, il mondo economico leggerà i diversi talenti come merito, e li remunererà diversamente. E così, quando quei due bambini andranno in pensione, la disuguaglianza tra di loro si sarà moltiplicata”.

autonomia sociale

Così, dalle considerazioni sul merito fino alle sponde della società della performance, l’elefante nella stanza sembra essere quel modello culturale a cui l’attuale modello economico sospinge la società. 

Già nel 2003 il sociologo Robert Castel, nel suo “L’Insécurité sociale. Qu’est-ce qu’être protégé?”, parlava di repentina “crisi della modernità organizzata”, nel momento in cui la realtà fattiva era andata a scontrarsi con la promessa neoliberista e liberale di accompagnare l’autonomia e la libertà degli individui all’uguaglianza sociale dei diritti e delle possibilità. Storicamente parlando, Castel individuava il punto di frattura nel periodo in cui i corpi sociali, occidentali, avevano immaginato gli individui come interpreti liberi e paritari di un rapporto contrattuale. Un concetto, secondo il sociologo, nato viziato, poiché teso ad escludere a priori un’intera porzione della società: basti pensare a tutti quei lavoratori le cui condizioni di esistenza non possono garantire loro alcun tipo di “autonomia sociale necessaria per entrare equamente in un assetto contrattuale”. Ulteriore passaggio di questo processo di frattura, avveniva con lo spostamento da quella che Castel definiva “società salariale” a quella che il filosofo Bhun Chul Han definisce “società della prestazione” o della performance, che ben presto si accavalla con quella che lui stesso chiamerà “società della stanchezza”. 

tratti ossessivi

Riavvolgendo le fila della vicenda Rossignoli, dunque, la saturazione e frustrazione emersa da buona parte del corpo sociale nei confronti della vicenda, sembrerebbe avere sede – storico-sociale – proprio lungo queste fratture: a cavallo tra la società della performance e quella della stanchezza. Quella che da alcuni è stata scambiata per rivolta “social” contro il merito, sociologicamente e mediaticamente parlando sembra assumere i toni di una storia molto diversa. Il racconto mediale proposto su Rossignoli, infatti, ricalca appieno alcuni tratti ossessivi ben sedimentati nei media tradizionali italiani che puntano alla promozione perpetua del paradigma della performatività. Seguono alcuni stralci raccolti nel corso degli anni: 

“Nicola Vernola, 20 anni, è il più giovane laureato d’Italia: “Ho sempre dato il 100% di me stesso”. Il neo dottore ha discusso la propria tesi in giurisprudenza alla Luiss di Roma. Ha iniziato la scuola elementare all’età di 5 anni, a 16 anni e mezzo era già tra i banchi universitari. “È stato molto formativo”.

“Giulio, lo studente dei record che prende quattro lauree insieme e tre borse di studio a Cambridge. «Sogno di trovare la cura per la Sla». Veneto, si sta per laureare a Pisa in Medicina, Ingegneria e Biotecnologie. Per la ricerca ha già cinque borse di studio di gran prestigio, di cui tre a Cambridge. Violinista e single”.

“Laurent Simons, il piccolo genio che sta per laurearsi in Ingegneria a soli 9 anni”.

chi si accontenta

E chi non riesce a dar sempre il 100% di sé stesso? Chi non riesce a performare nello studio e nella musica o nello sport al contempo? Chi semplicemente si accontenta? Deve sentirsi inadeguato per il Paese e per il mondo? Per buona parte della stampa italiana sembrerebbe di sì, come leggiamo nel catenaccio di un articolo uscito il 7 novembre: “Gente cui non s’è finito di formare il cervello addebita il proprio insuccesso all’altrui raccomandazione, invece che assumersi la responsabilità della propria mediocrità”. Il tema, a guardar bene le tendenze giornalistiche, non sembra circoscritto al caso Rossignoli, dove comunque tra le testate più lette d’Italia figura addirittura la dicitura “progettata per primeggiare”, ma riguarda a tutto tondo l’assillo galoppante dei media italiani per le performance. Non basterà argomentare che sono belle storie da raccontare, o che possono spronare chi riesce meno, perché se il ruolo e la volontà dei media europei fosse ancora genuinamente quella di “informare, educare e solo infine intrattenere”, come proponeva anzitempo la BBC, è oggettivo che in Italia l’informazione finisce invece per sospingere un progetto sociale dove la frustrazione di chi non eccelle diventa normalità. Il che fa sì che chi “fallisce, invece di mettere in dubbio la società, il sistema, ritiene sé stesso responsabile e si vergogna del fallimento”. In ciò, scrive Han, “consiste la speciale intelligenza del regime neoliberale. Non lascia emergere alcuna resistenza al sistema. […] Nel regime dell’autosfruttamento l’aggressività si rivolge contro noi stessi. […] Oggi non lavoriamo più per i nostri bisogni, ma per il capitale. Il capitale sviluppa bisogni propri che per errore percepiamo come nostri. Una nuova forma di trascendenza, una nuova forma di soggettivizzazione”. Leggendo il filosofo tedesco, allora, la società che dipinge non sembra poi così lontana dal quadro delle dichiarazioni di Rossignoli. “Non ho perso tempo, non perdo mai tempo. Mi aiuta poi il fatto di dormire poco, per me il sonno è tempo perso”. O ancora: “Quando ero in sessione, sotto esame, studiavo dalle sei del mattino fino anche alle due di notte”. 

logiche di mercato

In ultima analisi, gli studi sociologici e filosofici che giungono finora a supporto per inquadrare la vicenda Rossignoli vanno inoltre certamente coniugati con la consapevolezza che i modelli economici che oggigiorno muovono l’informazione italiana online, sembrano faticare a trovare vie alternative e più virtuose a meccanismi di clickbait e criteri scandalistici ai limiti dell’accettabile. L’approdo digitale dei mainstream e legacy media non è certo avvenuto lentamente, pacificamente e seguendo criteri ben definiti. Alla ricorsa – anche qui performativa – degli sviluppi quotidiani che tecnologia ed ecosistemi digitali pongono dinnanzi, la stampa ne esce schiacciata e piegata alle logiche di mercato. E impossibilitata a fermarsi per elaborare nuove strategie di auto-adattamento, finisce così per ripetere ancora e ancora errori “funzionali” al modello economico, risultando in finale vittima stessa, e al contempo carnefice, di quella società della performance che senza sosta decide di promuovere.

LASCIA UN COMMENTO