di LUCIANA BORSATTI
Niloofar Hamedi ed Elahe Mohammadi sono state tra i primi giornalisti a rendere pubblica la tragica vicenda di Mahsa Amini, la giovane morta dopo l’arresto da parte della cosiddetta “polizia morale” a Teheran: la prima scattando le foto della giovane in coma in ospedale e dell’abbraccio tra i due genitori; la seconda seguendone i funerali nella città natale di Saqqez, nel Kurdistan iraniano, dove vi è stata una delle prime proteste che hanno segnato la storia delle ultime sei settimane in Iran.
Una foto che circola sui media le ritrae insieme sorridenti, ma da oltre un mese si trovano entrambe nel carcere di Evin, dove le ha raggiunte una notizia raggelante: sono accusate di spionaggio per la Cia. Nei giorni scorsi infatti un comunicato congiunto dell’intelligence governativa e di quella delle Guardie della rivoluzione ha affermato che le due giovani colleghe sono ufficialmente accusate di spionaggio per aver collaborato con la Cia nel creare la storia dell’omicidio di Mahsa Amini.
nessuna prova
Secondo i due organismi dell’intelligence, la Cia, in collaborazione con i servizi britannici, israeliani e sauditi, “ha pianificato estensivamente di lanciare una rivolta nazionale in Iran con l’obiettivo di commettere crimini contro la grande nazione dell’Iran e la sua integrità territoriale, oltre a gettare le basi per l’intensificarsi delle pressioni esterne”. Una dichiarazione che non forniva prove né per le accuse alle due giornaliste né sul presunto ruolo dei servizi stranieri nell’orchestrare il movimento.
Niloofar Hamedi lavora per il quotidiano riformista Shargh, Elahe Mohammadi con il quotidiano Hammihan, di analoga tendenza. Ed è proprio dai dirigenti delle due testate che sono giunte immediate reazioni in loro difesa. Shargh, ha dichiarato l’editore del giornale Mehdi Rahmanian, nel pubblicare le foto e gli articoli sul caso, ha fatto “la cosa giusta” e compiuto la sua “missione giornalistica”. La reporter si è inoltre coordinata con la direzione in tutte le fasi del suo lavoro, ha aggiunto, e le accuse nei suoi confronti sono falsità. Quanto pubblicato da Elahe Mohammadi era simile ai resoconti di altri media e agenzie di stampa iraniane, ha sottolineato da parte sua il direttore di Hammihan, Gholam Hussein Karbaschi, aggiungendo che ormai tutto quanto accade diventa di dominio pubblico in pochi minuti. “Se lo spazio mediatico del Paese è tale che i giornalisti possano pubblicare le notizie corrette – ha affermato – sarà più vantaggioso per la sicurezza” dello stesso Paese.
“Approccio sicuritario”
Pronta anche la risposta di circa 500 giornalisti, fotoreporter e operatori dei media (il numero è fornito da Shargh): “La libertà dei media non è solo un diritto dei giornalisti, ma anche della società”, si legge in una loro dichiarazione https://cnn.it/3zHGGzo . “La nostra società ha il diritto di sapere cosa accade in modo tempestivo, senza censure o filtri, e anche quello di interrogare ogni persona o istituzione che causino inefficienza, corruzione o violino la legge”. Anche l’Associazione dei giornalisti di Teheran ha criticato, in una nota pubblicata Etemad (un altro giornale di area riformista) “l’approccio sicuritario” degli apparati di intelligence, in quanto “illegale” e “in conflitto con la libertà di stampa”.
Benché le tre testate condividano con numerose altre una storia di chiusure da parte delle autorità negli anni passati, va segnalato il coraggio dei loro editori, come di tanti giornalisti iraniani, nel difendere i colleghi e il loro diritto-dovere di cronaca. Al tempo stesso preoccupa il numero dei giornalisti arrestati: 51 secondo il Committee to Protect Journalists https://bit.ly/3UjHL8j in un conteggio aggiornato al primo novembre, e che ne include anche 14 liberati su cauzione. A questo elenco si è aggiunto anche Yaghma Fashkhami, scrive la France Press, nel dare notizia oggi di un diciottenne ucciso a Sanadaj, sempre in Kurdistan. E del proseguire dell’ondata delle proteste, rinfocolata anche dell’ormai quasi quotidiana ricorrenza delle cerimonie per il 40/o giorno dalla morte di altre vittime della repressione (almeno 277, fra cui 40 minori, secondo l’Ong basata a Oslo Iran Human Rights, cui si aggiungerebbero 14 mila arresti).
Merita infine attenzione un articolo di Jason Rezaian, l’ex corrispondente del Washington Post che, con l’accusa di spionaggio, ha trascorso 544 giorni nel carcere di Evin, fino alla liberazione del 16 gennaio 2016. Biden – scrive sul suo giornale https://wapo.st/3sTh5j1, a proposito del rischio di condanne a morte per alcuni degli arrestati – “dovrebbe fare dell’esecuzione di un solo manifestante una linea rossa che, se valicata, porrebbe fine a ogni riapertura dei negoziati sul programma nucleare iraniano”.
attori contrari al regime
“Ci sono due cose che l’amministrazione Biden non deve fare – prosegue Rezaian – La prima è soccombere all’idea che il sostegno proattivo al movimento in Iran peggiori in qualche modo la repressione dei manifestanti. Indipendentemente da ciò che Biden fa o non fa, il regime reprimerà i suoi dissidenti e la sua macchina di propaganda tenterà di deviare la responsabilità della miriade di problemi dell’Iran sugli avversari stranieri. (…). In secondo luogo, l’amministrazione non può ignorare che la disinformazione proviene anche da attori contrari al regime. Le falsità che sostengono il regime sono ampiamente accompagnate dalla disinformazione proveniente dai settori della diaspora iraniana, che hanno lo scopo di abbattere il regime, ma solo nei modi che ritengono accettabili”. Un probabile riferimento a progetti di un cambio di regime operato dall’esterno e alle feroci campagne denigratorie in atto online contro chi, nella diaspora iraniana americana, ha sempre sostenuto l’inopportunità di sanzioni che colpivano la gente e non l’establishment della Repubblica Islamica, ha creduto nella diplomazia e nell’accordo sul nucleare: finendo per questo con l’essere accusati – come accaduto al Niac (National Iranian American Council) – di fare lobby per la Repubblica Islamica https://bit.ly/3SVRNeI .
(nella foto, Niloofar Hamedi ed Elahe Mohammadi)