di FABRIZIO BERRUTI

Faceva molto caldo in quell’estate del 1986 quando con Massimo Sani ci avventurammo, con la sua vecchia Mercedes, in direzione Fossoli, il campo di concentramento, in provincia di Modena, che era stato scelto come set per le riprese del film inchiesta “Prigionieri”.

Ricordo quel caldo perché proprio quello del clima era stato uno degli argomenti più discussi nella scelta del luogo.

Lì, tra quei reticolati e quelle baracche abbandonate, erano stati convocati i testimoni, circa 40, età media 65-70 anni.

Un caldo asfissiante, il caldo dell’Emilia che avrebbe messo a dura prova la tempra di questi ex prigionieri, protagonisti di una vicenda incredibile, prigionieri in tutte le parti del pianeta, prigionieri degli inglesi, dei francesi, degli americani, dei russi e dei tedeschi.

un anno di preparazione

Una storia che mai era stata raccontata in tv.

Con Massimo Sani ci lavoravamo da oltre un anno, raccogliendo testimonianze e documenti per preparare la messa in scena del film.

Sì, perché, all’epoca, questo tipo di programmi assomigliavano molto al cinema, si girava in pellicola con troupe, tempi e strutture cinematografiche.

La prima fase era dedicata all’individuazione dei possibili testimoni. Ne avevamo trovati circa 200, che avevamo intervistato solo con l’audio, in giro per l’Italia.

Di questi circa 40 furono scelti per la realizzazione del film.

Un vero e proprio casting storico.

riunoni burrascose

Il set di Fossoli fu un’esperienza indimenticabile, una fatica massacrante, tra caldo insopportabile e terribili moscerini.

La Rai, che aveva sposato con entusiasmo il progetto editoriale di Massimo Sani e aveva messo a disposizione le risorse necessarie, era molto preoccupata per questa scelta di Fossoli.

Nei mesi precedenti ci furono riunioni piuttosto burrascose al Centro di Produzione perché, oggettivamente, l’impresa era di quelle da far tremare i polsi.

Un importante spiegamento di mezzi, di strutture di supporto, di camerini-roulotte con aria condizionata, una troupe di circa 30 persone, più i testimoni da gestire.

pieno di memoria

Massimo Sani non arretrò di un millimetro di fronte a tutte le contestazioni e ai problemi sollevati, sempre disponibile a trovare soluzioni, ma mai rinunciando all’idea, forte, di portare quegli ex prigionieri nel campo di concentramento di Fossoli per raccontare la loro storia.

Alla fine, la ebbe vinta e solo arrivando lì, in quel luogo desolato e pieno di memoria, mi resi conto di quanto avesse ragione.

Sul set Massimo era un vulcano in eruzione, un ragazzo pieno di energie cui era difficile stare dietro.

Era la mia prima esperienza sul set e ricordo che all’inizio ero come intontito da tante attività in contemporanea, dalla confusione, solo apparente, tipica di tutti i set.

come tarzan

Venne costruita una torretta di tubi Innocenti, alta 20 metri, su cui posizionare le luci e la cinepresa per le riprese dall’alto. Ad un certo punto vedo Massimo partire come una furia e arrampicarsi su quei tubi come fosse Tarzan.

Non volevo credere ai miei occhi, ero immobile a guardare questo matto arrampicarsi come un ragazzino.

Dopo qualche secondo, si avvicina Renzo Ragazzi, l’amico e collaboratore di Massimo da sempre, regista ferrarese di grande sensibilità, che mi sussurra all’orecchio: “…. ragazzo tu devi stare sempre attaccato a lui…. vai!”.

E io andai, con una paura che mi faceva tremare le gambe, soffrivo leggermente di vertigini, con difficoltà arrivai su e trovai Massimo che mi aspettava con un grande sorriso, come per dire: “….ce l’hai fatta…!”.

commossi e riconoscenti

Così era Massimo, nel lavoro e nella vita. Un lavoratore che non conosceva stanchezza, ma con una grande umanità e attenzione verso gli altri, anche se non tutti se ne accorgevano.

La troupe e la produzione tutta erano in rivolta per i ritmi di lavoro; ogni sera si lamentavano con me affinché intercedessi presso di lui.

Gliene dicevano di tutti i colori.

Poi, però, ricordo con emozione, come nei mesi successivi alla messa in onda del film inchiesta su Raiuno non facessimo altro che incontrare collaboratori di quell’impresa, commossi e riconoscenti con Massimo per aver avuto l’onore di partecipare.

generali e contadini

Una delle cose che ho sempre ammirato in Massimo Sani era la sua capacità di “stare al mondo”, di trovare un terreno di dialogo con tutti, a prescindere dall’estrazione sociale, dalla cultura, dalle opinioni politiche.

Si comportava con naturalezza sempre e comunque e per questo veniva apprezzato.

Questo valeva quando andavamo ad un pranzo “sabaudo” a Pinerolo con il generale Alfassio Grimaldi o alla Casa del Popolo con i contadini e gli operai.

Era sempre Massimo Sani, giornalista, regista, autore televisivo, intellettuale vero, nel senso gramsciano del termine.

uguale dignità

E questo aspetto era palesemente evidente in tutta la storia dei prigionieri di guerra italiani.

Una comunità eterogenea, composta di fascisti e comunisti, democristiani, cattolici integralisti e laici maturi. Una varia umanità unita da una comune esperienza di prigionia, una pagina della guerra ai più sconosciuta e non riconosciuta.

Massimo, con il suo sguardo attento e preciso nella ricostruzione storica, aveva dato uguale dignità a quei militari italiani che, in prigionia dopo l’8 settembre 1943, si rifiutarono di collaborare con gli Alleati e ai 600.000 soldati e ufficiali che dissero no ai tedeschi e per questo finirono nei campi di concentramento in Germania.

Tutte scelte dettate da situazioni diverse ma che meritavano, per la prima volta, di essere raccontate con onestà e precisione. Storie di uomini normali di fronte all’immensità della tragedia bellica.

una forte missione

Quel grande lavoro di ricerca e di testimonianza, che prese forma in un film inchiesta in tre puntate per Raiuno, ha contribuito a ricostruire una comunità, un modo di sentire collettivo e, in questo senso, era un perfetto prodotto del Servizio Pubblico.

Ecco, Massimo Sani sentiva fortissima questa missione del Servizio Pubblico, sentiva dentro di sé il compito di raccontare quella storia di cui lui era stato testimone da ragazzo. Voleva capire quella tragedia immane della guerra, quando ne parlava si percepiva questa sua voglia, questo suo bisogno di spiegare, con precisione, quello che era accaduto.

Non era uno storico, anzi lui rivendicava sempre con orgoglio la sua formazione scientifica, da chimico.

Eppure, era più storico degli storici ufficiali. Molte volte mi è capitato di assistere a discussioni con illustri accademici da cui risultava che lui, il chimico giornalista, ne sapeva più di loro, aveva consultato più documenti, aveva capito di più.

il maestro revelli

Ma con fermezza e capacità di persuasione li portava dalla sua parte, li convinceva.

Sempre con grande rispetto e stima.

Esemplare era il suo rapporto con Nuto Revelli, da Massimo considerato un maestro della Memoria. Di lui si fidava e proprio con Revelli aveva impostato tutta la ricostruzione della prigionia italiana in Unione Sovietica.

Revelli ci aveva fornito i suoi testimoni, i contadini piemontesi che erano andati in guerra in Russia con le scarpe di cartone e vi erano rimasti prigionieri per molti anni, testimoni che avevano scelto insieme e che rilasciarono le testimonianze più commoventi dell’intera serie.

Revelli ci aveva dato un contributo fondamentale per la narrazione di uno dei capitoli più controversi della storia contemporanea italiana, inquadrandolo nella giusta dimensione, riempendo la grande storia di una umanità piccola ma vera.

emozione e spettacolo

Massimo era stimato in tutti questi ambienti così diversi per formazione e cultura perché era competente, sapeva quello che diceva, si documentava più degli altri e questo si vedeva nelle sue opere televisive.

Trasformava la storia in emozione e spettacolo senza mai dimenticare che di storia si trattava, materia sensibile e fondamentale per la formazione di una coscienza collettiva.

La Storia come motore della crescita culturale, la Storia come vera bussola del presente.

Tutto questo sentire, questa profondità culturale, questa serietà nell’approccio storico e questa capacità di entrare in sintonia con i sentimenti più profondi si percepiva in quei giorni a Fossoli.

Lo capivamo dagli sguardi dei testimoni, inizialmente atterriti di vivere quell’esperienza apparentemente sadica all’interno di un campo di concentramento.

Eppure, felici e lusingati da tanta attenzione a quel loro racconto che nessuno aveva voluto ascoltare prima.

Erano stati conquistati da Massimo Sani e a lui sarebbero stati grati per tutta la vita.

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