di MICHELE MEZZA

“Noi li paghiamo per farci comprare da loro” era uno slogan in voga negli anni ’60, lanciato da un grande giornalista francese, Jean-Jacques Servan-Schreiber , direttore dell’Express. Nel libro “La Sfida Americana” denunciava il rapporto perverso della nascente comunità europea con le aziende statunitensi che facevano incetta di imprese innovative nel vecchio continente grazie a finanziamenti ed incentivi elargiti appunto dal sistema comunitario. 

In sostanza, i governi europei fornivano generosi finanziamenti ai gruppi americani per spingerli ad investire nei singoli paesi. Ma con quei soldi le imprese a stelle e strisce rilevavano le filiere industriali più competitive e avanzate, sguarnendo l’Europa in settori trainanti, come la chimica fine, l’aerospaziale e la nascente informatica, che nasce in Europa con la ricerca di inglesi, francesi e anche italiani, come Adriano Olivetti, e in poco tempo si spostò sulla costa occidentale americana, avviando il miracolo della Silicon Valley.

sindrome di stoccolma

Quella specie di sindrome di Stoccolma, per cui ci si trova a collaborare, anzi a sostenere, i propri carnefici, fa capolino oggi anche nella nostra categoria, dove, nei confronti dei nuovi format di intelligenza artificiale, si sta scatenando una corsa ad impratichirsi di quei dispositivi che rischia di accelerare la minaccia per il ruolo e l’occupazione delle redazioni.

Penso a quelle singolari iniziative basate sull’addestramento aziendale, che mirano ad introdurre i giornalisti all’uso di soluzioni, come i diversi prodotti di intelligenza artificiale, che non sono semplici oggetti inerti, ma apparati ideologici che condizionano il pensiero e determinano i comportamenti.

Tanto più se, come appare in molti casi, proprio chi esprime diffidenza e resistenza rispetto ai processi innovativi poi si trova a promuovere la diffusione di queste forme, con la giustificazione che bisogna essere concreti.

modellarsi in base all’uso

La concretezza oggi ci fa intanto comprendere che un drone può essere un oggetto di formazione sulla base delle sue specifiche tecniche, perché un oggetto ha meno capacità di condizionamento, mentre un algoritmo, basato sul machine learning, non viene insegnato ma è lui che insegna.

I modelli di LLM (Large language model), che costituiscono l’anima di Chat GPT, nelle due diverse versioni, o di Bard e Gemini di Google, sono costruiti come meccanismi performanti capaci di modellarsi sulla base dell’uso. Lo comprendiamo subito osservando che se due giornalisti, dopo aver usato il sistema per qualche minuto, fanno la stessa domanda a uno dei dispositivi citati, ottengono risposte diverse.

Allora cosa accade se centinaia di giornalisti cominciano ad impratichirsi di questi sistemi così come sono? Accade che questi sistemi diventano esperti del modo con cui si lavora e ci si esprime in una redazione, e quei sistemi diventano sempre più capaci di sostituire i propri utenti.

adorno e Horkheimer

Questa considerazione è figlia di un approccio che viene da lontano, e che considera il pensiero come il terreno di contesa e dominio da parte degli apparati culturali. Già negli anni ’20 -siamo all’inizio del dispiegarsi delle macchine comunicative, dal cinema alla radio, che si basavano sulla percezione che i produttori avevano dei desideri degli spettatori- due lucidissimi e profetici filosofi come Theodor Adorno e Max Horkheimer, spiegavano a chi credeva che bisognasse essere solo più duri e risoluti nella lotta sindacale in fabbrica per poter cambiare il sistema, che “il pensiero si reifica in un processo automatico che si svolge per proprio conto, gareggiando con la macchina che esso stesso produce perché lo possa finalmente sostituire”. Siamo negli anni dello sviluppo del fordismo, in cui le macchine apparivano solo come entità materiali fatte di ferro ed elettricità. Oggi afferriamo bene cosa intendessero quei due analisti del mondo quando parlavano di una macchina che poteva sostituire il pensiero.

Quelle che abbiamo dinanzi, penso ad una gamma estesa e varia di soluzioni che non si riducono solo ai prodotti più popolari, sono applicazioni che lavorano sulla base sia di una massa sterminata di dati sociali, che vengono privatizzati e rielaborati per avere schemi socio antropologici efficaci, e sia di esperienze di utenza che trasferiscono alla macchina informazioni intime e personali delle singole figure professionali.

“agency e non intelligence”

Se provassimo, almeno come giornalisti, a non essere vittime della nostra roboante informazione sul tema tecnologico e considerare che ChatGPT, o Bard sono solo, come scrive Luciano Floridi,  “agency e non intelligence”, cioè strumento del saper fare e non magiche intelligenze super umane, potremmo laicamente porci il tema di come usarle senza farci usare, ossia di quale consapevolezza critica potremmo impiegare per riconvertire queste risorse in un supporto e non in una minaccia.

Se la forza di questi sistemi è la ripetitività delle azioni che riproducono, ossia la standardizzazione di esperienze e pratiche che memorizzano dagli utenti, proponendoci soluzioni più veloci e maneggevoli, allora bisogna rovesciare l’asse del ragionamento e non partire dalle abilità, da trasmettere ai giornalisti medianti manuali di addestramento, ma dai fini, per costringere esperti, tecnici e fornitori a non adeguare gli utenti alla macchina, ma piuttosto ridisegnare il sistema in base alle pretese e alle eccezioni dell’utente.

mestiere artigiano

Un lavoro che presuppone uno sforzo collettivo, ridando così forza alla dimensione sociale della redazione, per individuare questi fini e il loro corredo etico, che deve riprogrammare il modello di calcolo. Senza fughe in avanti o esibizioni di maggiore efficacia rispetto ad altri spezzoni del sindacato. Mai come questa volta conta il senso comune della categoria, conta la massa critica del lavoro di migliaia di colleghi per trovare le domande che rendono la macchina non prescrittiva ma problematica. I giornalisti devono pretendere non di avere soluzioni rapide e concretamente vincenti, perché questa è la logica dei proprietari di questi sistemi che stanno automatizzando il lavoro, ma devono chiedere supporti per rendere il mestiere artigiano più preparato ai nuovi saperi. 

Non si tratta di imparare come essere più abili o furbi mediante la scorciatoia operativa dell’intelligenza artificiale, come farebbe il più sprovveduto studente alla vigilia del compito in classe, ma come sudare per trovare percorsi e linguaggi che diano diversa finalità e funzionalità alla potenza di calcolo e alla capacità di processare grandi quantità di dati.

Si tratta insomma di formare la formazione, di non applicare i modelli del passato a un meccanismo che non ha nulla in comune con quanto abbiamo già fatto. Prendendo in parola Einstein, quando diceva che nessuna nuova soluzione può venire da vecchie pratiche.

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