di MARIO TEDESCHINI LALLI
(dal canale di Medium dell’autore, con la sua autorizzazione)
Della persona interessata sappiamo solo che è una donna, che un numero imprecisato di anni fa è stata condannata a quattro anni di reclusione, che ha scontato la sua pena e che ora pretende di cancellare gli articoli di cronaca che a suo tempo raccontarono la sua storia.
Non ne conosciamo il nome, non sappiamo quale reato abbia commesso né quando, ignoriamo che faccia adesso. Ma il provvedimento che la riguarda, reso noto recentemente dal Garante per la protezione dei dati personali, dovrebbe essere attentamente meditato da giornalisti ed editori, per i principi che afferma circa il cosiddetto diritto all’oblio e per la realtà che rivela circa le inquietanti prassi adottate dalle testate italiane su questo argomento.
Serve un po’ di pazienza, andiamo con ordine
la notizia, il reclamo, le decisioni
Nella primavera del 2021 la signora scopre che digitando il suo nome su Google compaiono i link ad alcuni vecchi articoli di cronaca giudiziaria che raccontano le sue disavventure. Chiede agli editori la cancellazione degli articoli dai loro archivi online invocando, appunto, il diritto all’oblio. Poi, dicembre 2022, chiede al Garante (più noto familiarmente come Garante della privacy) di ordinare agli editori dei quotidiani Il Resto del Carlino e La Gazzetta del Mezzogiorno di rimuovere gli articoli che la riguardano e a Google di rimuovere link dai risultati del motore di ricerca.
L’avvocato della signora sostiene che si può ormai fare a meno di questi articoli perché “a distanza di tanto tempo” quelle informazioni “hanno perso di attualità”, tanto più che “non sono stati riportati i successivi aggiornamenti della vicenda”. La loro permanenza online, dice, costituisce un “danno per l’attuale posizione professionale” della signora ed è in “contrasto con la funzione rieducativa della pena stabilita dalla Costituzione”.
Il Garante chiede informazioni alle due case editrici, e apprende quanto segue:
- L’editore del Resto del Carlino già nell’agosto 2022, quattro mesi prima della presentazione del reclamo al garante, aveva provveduto a cancellare l’articolo come richiesto.
- L’editore della Gazzetta del Mezzogiorno sostiene, invece, “l’interesse del pubblico alla conoscibilità della notizia”, perché il procedimento giudiziario si era concluso con una condanna a quattro anni e perché, “in ogni caso”, occorre “preservare l’integrità dell’archivio a scopo storico-documentaristico”.
- Google ha rimosso, come richiesto, le URL degli articoli dai risultati delle ricerche in base al nome della signora (da ora in poi, cioè, chi cerchi il nome di quella persona su Google non vedrà gli articoli che raccontano delle sue vicende giudiziarie).
Nei confronti del Resto del Carlino e di Google, dunque, non c’è più ragione di procedere. Il Garante si esprime, invece, sul caso della Gazzetta del Mezzogiorno, mettendo in chiaro alcuni principi:
- la pubblicazione a suo tempo dell’articolo contenente i “dati personali” della signora era lecita (*): si è trattato dello “esercizio del diritto di cronaca giornalistica (…) rispondente all’interesse del pubblico a conoscere le vicende”;
anche il mantenimento dell’articolo nel database dell’editore è lecito perché “rispondente ad una legittima finalità di archiviazione di interesse storico-documentaristico che, pur differente dall’originaria finalità di cronaca giornalistica, risulta compatibile con essa”;
- l’archivio on-line di un giornale, “così come l’equivalente cartaceo, presenta in sé una importante funzione ai fini della ricostruzione storica degli eventi (…), specie laddove si tratti di vicende riguardanti persone che hanno svolto e/o svolgono un determinato ruolo nella vita collettiva“
Tuttavia il Garante riconosce che la signora ha scontato la sua pena e che la pena stessa stata dichiarata “estinta” dal tribunale, concludendo:
“..non sembrano pertanto sussistere, allo stato attuale, specifiche ragioni di interesse pubblico che giustifichino una perdurante reperibilità dell’articolo in questione al di fuori dell’archivio dell’editore”
O, per dirla in modo un po’ più diretto: la notizia in quanto tale è “scaduta”, come uno yogurt vecchio che è il caso di togliere dagli scaffali, perché può far più male che bene.
Sulla base di tutte queste apparentemente confliggenti considerazioni (la notizia era legittima, legittimo è il suo permanere in un archivio per ragioni storiche, ma non è il caso che sia ancora “reperibile” ovunque), il Garante:
- respinge la richiesta di cancellazione dell’articolo;
- stabilisce, però, che l’editore doti quell’articolo di tag e file che impediscano la sua indicizzazione da parte dei motori di ricerca (robots.txt e Robots Meta Tags ). Cioè che quell’articolo non sia più raggiungibile attraverso i motori di ricerca, neanche con parole chiave differenti dal nome dell’interessata (ad esempio: il luogo dove è avvenuto il fatto, il nome di altre persone coinvolte nella vicenda ecc.).
Spiega meglio il Garante:
“Si reputa opportuno, in un’ottica di bilanciamento tra i diritti dell’interessata e l’interesse connesso alla fruibilità delle informazioni contenute nell’articolo, che sia l’editore stesso ad adottare misure tecniche idonee ad inibire l’indicizzazione dell’articolo medesimo da parte dei motori di ricerca esterni al sito del quotidiano”
Domande e dubbi
Le decisioni del Garante sono particolarmente importanti per le testate giornalistiche, prima di tutto perché affermano un principio fondamentale: gli articoli, legittimamente pubblicati, non devono sparire dagli archivi digitali. Un principio che però è già stato più volte respinto dalla magistratura, che in alcune sentenze ha stabilito la necessità di cancellare puramente e semplicemente gli articoli dal database, ordinando anzi il pagamento dei danni ad editori che non si erano adeguati prontamente alle richieste in questo senso.
Al tempo stesso il Garante riconosce quello che alcuni giudici avevano già affermato nelle loro sentenze: le notizie hanno una — sia pur ancora indeterminata — data di scadenza, dopo la quale perdono, appunto, la loro qualità di notizie e il loro diritto ad essere, per così dire, pubblicate.
Da molto tempo sostengo che ciò non deve essere possibile, a meno di non stabilire che la libertà di espressione e la libertà di stampa, stabilite dall’art. 21 della Costituzione, possano essere limitate “nel tempo”, che diritti e libertà costituzionali in eventuale conflitto debbano essere contemperati, non negati. Il provvedimento del Garante questo tentativo lo fa, ma arrivando, secondo me, a una soluzione ancora troppo radicale, specie se affermata in termini generali. (Per una discussione di questi argomenti si veda il mio intervento di gennaio 2023: Riflessioni su un quarto di secolo di giornalismo digitale: le invarianti ).
Oltre all’evidente contraddizione tra il pronunciamento del Garante e alcune sentenze della magistratura, oltre alla importantissima questione di principio costituzionale relativa alla libertà di stampa “nel tempo”, le decisioni del provvedimento sollevano anche altri problemi:
- Sottrarre totalmente un articolo alla visibilità sui motori di ricerca un articolo, anche se legittimamente pubblicato e archiviato, può venire incontro alle esigenze di una persona (quella che richiede l’intervento), ma si scontra potenzialmente con legittime esigenze informative relative ad altri elementi presenti nell’articolo “nascosto”: fatti, luoghi, organizzazioni e persone. Insomma: che succede del diritto di altri ad essere informati “nel tempo” delle cose raccontate nell’articolo, anche a prescindere dalla persona che non vuol più essere “trovata”?
- Non sappiamo se gli articoli cancellati dagli editori fossero articoli firmati. Se lo fossero stati, la loro cancellazione non avrebbe leso il diritto dell’autore? Io per esempio non trovo più online un articolo che scrissi a metà degli anni Novanta su una spia italo-danese e ho il sospetto che questo ne abbia richiesto la cancellazione e l’editore abbia proceduto senza chiedermi neppure un parere… non è questione che riguardi i giornalisti?
- Che succede se la persona che ottiene la dichiarazione di “perduta attualità” di un articolo dove compare il suo nome, negli anni successivi intraprende un’attività o una carriera di rilevanza pubblica, per esempio si candida alle elezioni? Ha ancora “diritto all’oblio” per il reato commesso e per il quale è stata magari condannata a quattro anni? O a lei si dovrebbe applicare un diritto alla riservatezza per così dire attenuato, come previsto da norme, regolamenti e sentenze? Ma se abbiamo in passato espunto dalla sua storia personale quell’avvenimento e quel fatto, chi mai potrà pensare di “re-indicizzare” l’articolo?
- Infine, quando scadrebbe l’attualità di una notizia? Questo provvedimento non affronta la questione in termini generali, si limita a indicare che i fatti discussi sono vecchi perché risalgono “al XX”, un anno non specificato nella versione pubblica del documento, per ragioni — appunto — di privacy. Quindi non possiamo dedurne alcunché (una sentenza della magistratura di qualche tempo fa sembrava indicare che due anni fossero sufficienti)
È un quadro evidentemente complesso. Ci muoviamo in un universo spazio-temporale molto diverso da quello nel quale sono nate leggi, regolamenti e giurisprudenza, che cerchiamo ancora di applicare. In questa complessità, editori e giornalisti, dovrebbero anche affermare il diritto loro e dei cittadini a godere delle libertà costituzionali anche nel nuovo universo digitale, dove “il tempo non è più quello di un tempo”. Un “diritto alla memoria”, accanto al “diritto all’oblio”.
Ma anche prima di affrontare la questione di principio, prima di discutere come eventualmente affrontare i problemi che pure la “trans-temporalità” crea, sulla base di questo chiaro provvedimento del Garante, il mondo del giornalismo dovrebbe da ora in poi darsi e render pubblica una regola semplice e chiara: “Primo: non cancellare”.
E invece…
redazioni ed editori
Abbiamo già visto che l’editore del Resto del Carlino ha cancellato l’articolo circa un anno e mezzo prima che il Garante affermasse che in realtà non serviva affatto cancellarlo. Il reclamo presentato ci racconta in realtà molto di più: gli avvocati spiegano, infatti, che quando la signora si accorse di questi contenuti nocivi “per la propria vita relazionale e lavorativa”, fece “richiesta di rimozione a numerosi editori, la maggior parte dei quali ha proceduto a disporne la ricezione ad eccezione di quelli nei confronti dei quali” era proposto il reclamo.
Traduciamo: tutti gli editori, che avevano legittimamente pubblicato gli articoli sulla condanna della signora, li hanno cancellati su sua richiesta (unica eccezione l’editore della Gazzetta del Mezzogiono) — ma poi si scopre che, secondo il “Garante della privacy”, non ce n’era bisogno.
Come la mettiamo? Non sarebbe necessaria una riflessione in questo senso? Certo, a volte per gli editori — specie per i più piccoli — è più semplice e meno costoso ottemperare alle richieste di cancellazione che resistere a minacce e cause legali, ma i giornalisti che dicono, accettano senza neppure discuterne un limite alla loro libertà di “scrivere per il futuro”?
Sugli organi di informazione “di categoria” ho trovato solo un articolo su questo argomento (gradite segnalazioni e link di eventuali altri). E’ sul numero di giugno 2023 di Tabloid, periodico dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia e spiega come i ricorsi per “oblio” abbiano un effetto intimidatorio nei confronti di redazioni ed editori, i quali per quieto vivere spesso rinunciano a resistere alla richieste di cancellazione. Per questo l’articolista invoca una difficile e forse pericolosa “norma” per bilanciare l’interesse pubblico all’informazione con il diritto individuale all’oblio. L’articolo s’intitola “Se il diritto all’oblio diventa una minaccia a chi scrive” ed è firmato da Claudia Trombelli, “Legal Specialist di Citynews SpA”, è cioè la voce di un editore, non di una giornalista o di un giornalista.
Ah, non cercate sul web questo articolo, è consultabile solo a pagina 23 della copia a stampa o in facsimile della rivista, sui motori di ricerca non esiste. Poi uno dice la “transizione digitale”.
E sì che giornaliste e giornalisti ne avrebbero di cose sulle quali riflettere, oltre che sulla questione di principio. Per esempio, potrebbero discutere e pubblicare (anche le singole testate, non serve per questo l’Ordine dei giornalisti) linee guida su argomenti che potrebbero aiutare ad affrontare i problemi nuovi che il giornalismo “trans-temporale” comporta:
- Quando e come, in generale, sia lecito od opportuno modificare un articolo già pubblicato
- Come si corregga un articolo errato
- Quando e come sia necessario aggiornare un articolo superato dagli avvenimenti successivi
- Se e quando sia possibile sopprimere una parte del pubblicato e che cosa debba sostituire la parte eventualmente soppressa.
- Se ci debba essere un ruolo rispettivo delle redazioni, delle direzioni giornalistiche in questo ambito, o possa essere lasciato agli editori
Tutte questioni fondamentali nei rapporti con le persone (lettori, ascoltatori, spettatori, utenti, cittadini…) con le quali giornaliste e giornalisti devono stringere un patto fiduciario, non solo per ragioni morali, ma per sperare di sopravvivere anche economicamente.
Tutte questioni che, risolte, potrebbero semplificare la ricerca di soluzioni di fronte a richieste di cancellazione in base al “diritto all’oblio”. Proprio nel caso del quale parliamo, ricorderete, l’avvocato della signora faceva notare che la reperibilità degli articoli non era più giustificata “anche in ragione del fatto che non sono stati riportati i successivi aggiornamenti della vicenda”. Né gli editori, né il Garante — per quello che si può arguire dal testo del provvedimento — hanno preso in considerazione questa frase che poteva adombrare una soluzione “dinamica” del problema.
Chissà, in qualche caso, un “aggiornamento” del testo, un link che rimandi a un aggiornamento o a una correzione, insomma una soluzione immaginabile nell’universo digitale, ma non in quello analogico, potrebbe almeno limitare il disastroso ricorso allo “oblio per cancellazione” e affermare una visione del giornalismo e della libertà di stampa culturalmente più adatta alla realtà attuale.
(nella foto, Pasquale Stanzione, Presidente del Garante per la Privacy)