(A.G.) Sopravvivere a New York con 12 dollari al giorno, in due (cibo, sigarette, gettoni per la metro, e case gratis finché ti ospitano, poi si cambia). Girare per la città con un materasso arrotolato sulle spalle, portandolo anche da Upper West Side a Lower East Side, cioè tutta Manhattan da Nord a Sud. Dare la caccia a differenti tipi di blatte, dai cockroaches ai waterbugs, e a topi, approfittare della possibilità nei bar di “refill”, riempire più volte il bicchiere di tè o caffè e poi frequentare party con Mastroianni e Andy Warhol.
“Tredicesima strada” (Galaad Edizioni) è anche questo. Ma, soprattutto, è una storia d’amore. Quella di Luciana Capretti e Stefano Trincia, “la coppia” nell’ambiente dei corrispondenti Rai nella metropoli americana. “Sorridenti, felici, affiatati, alti, anzi altissimi”. “You are such a team”, siete una squadra, dice loro Richard Gere.
ballerina classica
Luciana così alta che rinuncia al sogno di diventare ballerina classica, ma che di danza scrive, fra tante altre cose. E Stefano che mette da parte gli studi di slavistica. Tutti e due finiti a fare i giornalisti, perché fra tanti espedienti risulta la strada più stabile e proficua. Vogliono, essenzialmente, restare a New York, partiti per pochi giorni e inesorabilmente avvinti. Restare a New York, insieme. Perchè era pericolosa sporca e stracciona, ma era anche ricca sofisticata e viva, e magnificamente democratica, “intrecciarsi di vite che creava un’esplosione di possibilità”.
Così, a partire da quel gennaio del 1981, Luciana e Stefano imparano come fare telefonate senza pagare, come entrare in metro col tesserino di un’associazione turistica o accompagnando un cieco. “Di sera insegnavamo italiano, di giorno scrivevamo, di notte mandavamo i pezzi con il telex”. Pian piano, Progresso italoamericano, Rai International, Radiocorriere, Canale 47, La Voce italiana, Il Giornale di Sicilia, Panorama, Il Giorno, Il Messaggero. Hanno la cultura e la curiosità per fare molto altro, ma il giornalismo (era) quel mestiere che permette di vivere tante vite, anche superiori alle proprie possibilità economiche e ti fa sentire al centro dell’universo, se lo descrivi soltanto.
mai di notte o nei festivi
Luciana e Stefano raccontano il tempo della bancarotta, quando a New York ci sono 120mila rapine e 2100 omicidi l’anno, quando “mai in metro di notte o nei festivi, mai ad Harlem o nel Bronx”. Gli anni del Presidente attore Ronald Reagan, quelli di Basquiat e Keith Haring, i ragazzi dei ghetti che diventano star, le visite di Fellini. Intervistano Woody Allen, fanno perfino i doppiatori di “Zelig”. Frequentano italiani come lo psicanalista Ferruccio Di Cori, arrivato con 50 dollari, in fuga dalle leggi razziali e poi titolare di un palazzetto di 26 stanze, con uno Chagall all’ingresso. E gli yuppies, l’ossessione per lo jogging, le wonder moms, mamme che non rinunciano a nulla e quel momento in cui la prima domanda di tutti è: “How much money do you make?”, quanto guadagni?
A New York i “misfits” (disadattati) possono andare ai party dei “master of universe” (padroni dell’universo), ma poi tornano a casa piedi. C’è poca distanza, qui, fra il gradino basso e quello alto, ma non si colma (quasi) mai. E l’arrivo terribile dell’Aids. La “terapia dell’urlo” praticata da certe signore e i 36 mila homeless con solo 3200 posti nei rifugi.
buona fede
Fino all’arrivo dei figli e -tramite loro- alla “rieducazione americana” perché -con tutti i difetti- gli Stati Uniti sono un Paese che dà naturalmente fiducia e poi non tollera chi abusa della buona fede. Che insegna agli eredi a vestirsi e a cavarsela da soli.
Questo libro è un progetto a lungo coltivato insieme, fra resistenze, entusiasmi e dubbi. Alla fine lo ha scritto Luciana, utilizzando alcuni frammenti di Stefano, perché lui se n’è andato via presto.
Nell’ultima pagina c’è una frase dai “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese: “L’uomo mortale non ha che questo d’immortale. Il ricordo che porta e il ricordo che lascia”. Un libro che fa ancora innamorare del giornalismo e degli infiniti incastri della vita.
(nella foto di Maria pia Giarré, Stefano Trincia e Luciana Capretti)
Ho conosciuto bene Stefano e incontrato a New York una sola volta Elisabetta. Erano una coppia di “gatti” randagi in quella metropoli affascinante e dura, sapevano tutto, conoscevano tutti. Ogni indirizzo era quello giusto. Erano appassionati di NYC e quella passionaccia te la trasmettevano fin dentro le ossa. Chi capitava in quella città, che ci sembrava di conoscere isolato per isolato per averla vista, toccata, annusata, amata, sognata in mille film e negli avvolgenti racconti di Paul Auster, non poteva non passare prima da Stefano ed Elisabetta (e da Anna Guaita o Lucio Manisco) perché ti restituivano il sapore di quella città come solo un italiano innamorato di New York sa fare.
Ecco questo libro è una piccola manna di cui vorrò nutrirmi il prima possibile.
Grazie Andrea!
Scusate l’insopportabile e misterioso scambio di nome: la compagna di Stefano è Luciana non Elisabetta!
Chiedo perdono.