di ALBERTO FERRIGOLO

“Nel giornalismo deve esserci una netta distinzione tra informazione e pubblicità”. Su un campione di 480 individui – di cui 282 donne e 198 uomini – sondati attraverso un questionario online, alla domanda specifica il 97,2% si dice favorevole a questa distinzione (il 78,1 lo è “fortemente”), optando nettamente per un’informazione “chiara e netta” che si distingua del tutto dalle strategie del marketing. La pensano così in proporzione pressoché uguale sia gli under sia gli over 30. C’è da dire che il questionario è circolato soprattutto in ambienti universitari (il 67% ha meno di 30 anni), ma del campione di 480, ottanta sono i giornalisti che hanno risposto (il 16,6%).  

I dati appartengono alla ricerca condotta dalla Fondazione per il giornalismo Paolo Murialdi con alcune cattedre di comunicazione e di giornalismo dell’Università La Sapienza di Roma (professori Christian Ruggiero, Marco Bruno, Giampiero Gramaglia) e ora riportati nel volumetto “Tra informazione e marketing. La ridefinizione dei confini del giornalismo”, uscito per i “Quaderni Murialdi” editi da All Around (15 euro).

estrema diffidenza

Il 98,5% dei sondati si schiera a favore del fatto che gli articoli che affrontano tematiche legate ad aziende, prodotti e servizi a scopi pubblicitari “devono essere chiaramente identificabili”, per evitare lo spaesamento dinanzi ad un messaggio a carattere subliminale o comunque occulto, anche perché un 55,8% del campione teme che quando un giornalista tratta un certo tipo di prodotto “c’è sempre un accordo con l’azienda che lo produce”. Diffidenza estrema, dunque, verso una negoziazione che dal 60,9% viene ritenuta un comportamento “non adeguato”. 

C’è dunque consapevolezza di possibili accordi “sottobanco” o di una negoziazione giornalista-aziende, ma l’89,6% è netto nel chiedere che venga mantenuto un “atteggiamento critico” da parte del giornalista nei confronti del contenuto commerciale proposto negli articoli. 

online condizionato

In ogni caso, secondo il 54,5% del campione, l’informazione online appare “più condizionata” dalla pubblicità rispetto a quella cartacea e persino a quella televisiva, tant’è che – nel flusso dell’informazione web e social – per la maggioranza di chi risponde è “più semplice distinguere i contenuti sponsorizzati” (la pensa così il 58,4% del campione, anche se sono soprattutto gli under 30 a crederci, forse perché più abituati al genere). E c’è un 59% dei sondati che ritiene anche che i contenuti sponsorizzati siano “solo una piccola parte” degli articoli giornalistici in rete che “hanno fini pubblicitari”. 

Ma se la pubblicità invade il giornalismo, come si fa ad arginarla, o quantomeno “ritrovare un equilibrio tra due mondi complementari”? Se lo chiede nella nota introduttiva Raffaele Fiengo, storico componente del Comitato di redazione del Corriere della Sera per circa vent’anni tra i Settanta e gli Ottanta. Fiengo scrive che “la commistione ha raggiunto livelli impensabili”, al punto che “i fenomeni di non trasparenza e pubblicità occulta sono diventati la regola”. Pratiche così “ordinarie” da essere parte della pianificazione delle campagne pubblicitarie dei grandi media, che prevedono persino due “tariffari distinti” in cui la pubblicità con valore aggiunto giornalistico prospetta listini di valore triplo alla pubblicità semplice e tradizionale, come denunciato nel corso di un Corso di formazione per 400 giornalisti a Roma il 10 ottobre 2022.

sei zampe

Per arginare l’offensiva, per esempio, i giornalisti de la Repubblica nel novembre del 2023 hanno approvato una Carta in dieci punti sulle “pratiche invasive della pubblicità sul lavoro giornalistico”. Alla Carta intendono attenersi, ma senza grandi risultati, come dimostrato dai due giorni di sciopero proclamati il 24 e 25 settembre contro l’Editore e il Direttore Molinari, intervenuti sui contenuti dell’inserto su “Italian Tech Week”. In ogni caso, pochi giorni dopo Molinari è stato improvvisamente sostituito. 

Scrive Fiengo: “Il famoso ‘muro’ che (con molte crepe) separava pubblicità e marketing dal lavoro giornalistico forse s’è davvero sbriciolato del tutto”, perché “le nuove regole decise da Molinari a fine 2023 permettono, per esempio, questa doppia pagina di promozione della comunicazione Eni, uscita su la Repubblica del 7 dicembre 2023 senza nessuna indicazione della sua natura ‘pubblicitaria’”. Il riferimento è alle due pagine “Le Guide” dedicate a “La storia d’Italia che corre a sei zampe”. Insomma, non vale più la definizione di Luigi Einaudi secondo cui “il giornalismo è la vendita di notizie e avvisi”, rigorosamente separate e distinti le une dagli altri. 

consumi e tendenze

Una parte della ricerca della Fondazione Murialdi con l’Università La Sapienza è dedicata anche alla percezione e ai valori da parte del pubblico sul cosiddetto “brand journalism” sviluppatosi anche in seguito all’ampliarsi del cosiddetto “lifestyle journalism”: consumi, tendenze, moda, beauty, design, food, etc. Il 61,1 del campione (contro un 42,5% degli under 30) ritiene che i supplementi legati a moda, cibo, etc. “sono solo un modo per finanziare la testata” e che “non hanno nulla a che fare con il giornalismo”. Ma all’interno del campione, sono soprattutto gli over 30 “a ritenere meno validi giornalisticamente i prodotti di lifestyle journalism”, mentre i più giovani, gli under 30, “sembrano tracciare una linea meno netta” tra lifestyle e giornalismo tradizionale. Anche se il 55% (contro un 45) ritiene che il giornalista oggi “deve trattare” questi temi “per mantenere un contatto con la realtà nella quale vive il suo lettore”. 

Si tratta di tematiche sulle quali, infatti, sempre più largamente giornali e periodici puntano per ovvie ragioni di mercato, inteso come audience, ma anche come mercato pubblicitario tout court.

adattamento e adeguamento

Se Fiengo sostiene che il futuro della democrazia dipende dal libero giornalismo e dalla libertà di stampa in senso lato, non influenzabile e non condizionabile, il professor Ruggiero, citando il sociologo francese Pierre Bourdieu, parla di “semplice processo di ‘adattamento’” in atto tra “le logiche che guiderebbero idealmente il giornalismo” e quelle alle quali il giornalista deve adeguarsi, “dal momento che la notizia dev’essere, per garantire la sua stessa esistenza e circolazione, anche un bene acquistabile sul mercato”. Sintetizza Patrick Champagne, in un suo saggio del 2005, che “il giornalista vuole idealmente essere strenuamente e a ogni costo a servizio della verità, ma appartiene a un giornale che ha un prezzo ed è situato all’interno di un’impresa economica con le sue esigenze, che sono tutte di questo stesso spirito”. Mercantili. 

Allora non c’è proprio via di scampo? Il giornalismo è necessariamente solo pubblicità? Per Ruggiero “la logica giornalistica e quella commerciale emergono con forza a partire dagli anni Dieci del Duemila”, in quanto “il declino delle vendite e degli introiti pubblicitari”, che si radicalizza con la crisi del Terzo millennio, “ha spinto le imprese giornalistiche a trovare fonti di reddito alternative, alimentando così le propensioni commerciali che mettono in discussione proprio l’autonomia dei propri giornalisti”, mettendo a repentaglio “la chiara distinguibilità tra informazione e messaggio pubblicitario”.

un grande gioco

“La carta stampata ha aumentato le pagine, le ha lustrate, patinate, le ha gonfiate di pubblicità”, fino al punto che “la qualità è stata confusa con la quantità”, ha scritto un anno fa nel suo libro “Nel segno della verità” (Istimedia edizioni 2021, euro 14), Vittorio Roidi, un passato da inviato e caporedattore del Gr1 di Sergio Zavoli, storico capocronista e caporedattore de Il Messaggero negli anni fulgidi del quotidiano di via del Tritone, già presidente della Federazione della Stampa e segretario nazionale dell’Ordine dei giornalisti. E in effetti, leggendo i giornali, scorrendo le home page dei siti d’informazione si ha netta la sensazione che molto sia inserito in un grande gioco pubblicitario: io parlo di te, tu in cambio mi dai réclame. L’intervista all’industriale noto, come quella al grande chef, le due colonne in economia appaiate del grande quotidiano del Nord e dedicate al colloquio con personaggi del mondo dell’impresa e del business, i supplementi ambiente. In un longform continuo tra sostenibilità, cucina, viaggi, territori, Regioni, lavoro, giochi, orologi, tempo libero e tempi di lavoro, tecnologia, tempo libero e innovazione, guide, natura e mondo biologico, sport, ristoranti e persino le ricette, human data, big data e social tech, libri e cultura, creme e corpo, chirurgia estetica, modi&moda dove il futuro è no sex, femminilità e abbigliamento, beauty&fashion, design, living, colori&arredamenti, grandi mostre, giardini&terrazze, mare&montagna, lago&campagna, gamberetti&funghi porcini, in un tripudio di segnalazioni ad hoc. 

Resta, da ultimo, l’interrogativo di Roidi: e la verità che fine ha fatto? E se fosse tutta una finzione? Se scoprissimo che più che la ricerca della “verità”, molto giornalismo sta virando verso la ricerca ossessiva della pubblicità con tutti i mezzi possibili a propria disposizione? 

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