di RAFFAELE FIENGO

“A Working-Class Income Gap Shrinks(Black Americans have made gains while whites have fallen back)”.

Si restringe il divario di entrate tra la classe operaia negli Stati Uniti: i neri americani hanno accorciato le distanze nei salari rispetto ai bianchi, che perdono un po’ terreno.

Questo lungo articolo del 5 dicembre 2024, sulla prima pagina del Wall Street Journal (giornale prestigioso dell’establishment), aiuta a capire l’inquietante successo di Donald Trump nelle elezioni presidenziali. E mi sembra assai utile per lo stesso giornalismo che cerca se stesso.

salari bianchi e neri

Una ricerca dell’università di Harvard ha dato alcuni numeri. Negli Stati Uniti un bambino nero nato nel 1992, arrivato a 27 anni ha guadagnato 9.521 dollari meno di un bianco nato in una famiglia della stessa classe di reddito. Un bambino nero nato quindici anni prima, nel 1978, aveva guadagnato 12.994 dollari in meno rispetto a un ex bimbo nero suo coetaneo. Insomma, gli operai neri guadagnano sempre meno dei bianchi, ma la differenza di salario si è un po’ assottigliata.

Dati reali, accompagnati da una inchiesta sul campo, con famiglie vere bianche e nere. 

Questo articolo è il giornalismo basato sulla realtà. In questo caso documenta bene il lento, normale ed equo, riequilibrio nei salari, come quello delle retribuzioni femminili. Ce ne sono così sul New York Times, Le Monde, Guardian, Der Spiegel. Anche talvolta sui grandi quotidiani in Italia, ma assai meno.

odio e paura 

Comunque anche in America, sulla materia che tratta (neri, immigrati), la notizia -seppur vera- non incide minimamente sulla opinione pubblica larga. Non intacca il messaggio contrario e falso, che sta dentro la nube, nera di paura e odio. Quella che, secondo il New Yorker, è anche il segreto della strana vittoria repubblicana e che il settimanale definisce  “ambience of information”, “nozioni liquide disseminate in tutto il Paese”.

E’ davvero una “nebulosa dell’informazione”, quella che continua a viaggiare minacciosa, portata dai social: contiene anche, come sottofondo, l‘idea della sostituzione etnica, attraverso l’invasione degli immigrati, il cuore del patrimonio sovranista e trumpiano.

assegni ai sottoscrittori

Negli Stati Uniti, poi, c’è un dato in più, meno visibile (e anche meno accettabile nell’ottica europea): il rapporto diretto tra il danaro speso e i voti espressi. In America è invece normale. La riprova dell’importanza di questo meccanismo è l’enorme spesa di Elon Musk, che ha determinato la vittoria di Trump. E’ tutto leggibile nel sito “America PAC”, poggiato su Facebook (non visibile in Europa, se non con l’applicazione VPN). Il 30 ottobre 2024 (prendendo uno dei giorni della campagna presidenziale) sono stati spediti ben 87 mila assegni ai sottoscrittori della petizione di Musk “a favore della libertà di parola e del diritto di portare armi”. (A ogni sottoscrittore 40 dollari e il doppio se avevano portato alla registrazione un altro votante). 

Ogni giorno, fino al giorno del voto, veniva inoltre scelta una famiglia degli Stati in bilico e premiata con un milione di dollari. Facendo facili conti si arriva a tre milioni di voti negli swinging states (i sei o sette stati con i candidati in equilibrio dove ha agito con successo Musk). In verità una giudice americana ha tentato di fermare questa “compravendita” di voti, ma l’autorità competente l’ha considerata legittima, normale.

tutto il campo

Il vero problema dunque è che il giornalismo, anche quando non è manchevole del suo, non copre “tutto il campo” ormai continuo e operante in tempo reale, occupato in modo pesante dalla viralità indotta anche con danaro.

Questo stato di cose, alimentato dalle “verità alternate” e dagli abusi con il mercato, anche politico, delle profilazioni individuali, non è nato oggi, ma ha fatto molta strada dal suo esordio nella votazione per la Brexit. L’esempio-documento  che ha fatto storia proprio sullo stesso tema (gli immigrati) così centrale, si è avuto con l’esplosione dello scandalo Cambridge Analytica-Facebook. Nella conferenza TED di Vancouver del 2019, Carole Cadwalladr, una giornalista dell’Observer, raccontò il suo ritorno, per una inchiesta sul voto, ad Ebbw Vale, un paesino del Galles meridionale, dove era cresciuta, tutto rugby e carbone. Lì il risultato del referendum sulla Brexit era stato clamoroso e inspiegabile, incomprensibile (il 62 per cento al “Leave”!). 

una sola polacca

”In paese ho incontrato una sola signora polacca, unica straniera”, disse la Cadwalladr. A Ebbw Vale, però, peraltro una roccaforte laburista, era arrivata a tutti i cittadini la falsa notizia che “76 milioni di turchi stavano per arrivare in Europa”. Il meccanismo infernale, veicolato allora da Facebook con Cambridge Analytica, era stato rivelato dal Guardian in una intervista con Christopher Wylie, un dipendente Facebook, sull’uso dei profili individuali attraverso i social.

In che modo le non notizie si traducano in opinione pubblica non è molto chiaro. All’istituto neurologico “Besta” di Milano (me lo ha spiegato il collega Cesare Peccarisi, responsabile della comunicazione scientifica della Società italiana di sociologia) ragionano e studiano su questo. E non si limitano a osservare che le parole di politici dei due schieramenti sono diverse anche quando i termini sono sovrapponibili. (I conservatori usano dire “finanziario”, mentre gli altri dicono “monetario”). Ma diverse aree del cervello sono chiamate in campo anche quando si decide il voto. E sulla stessa cosa le aree del cervello che si attivano non sono le stesse per tutte le persone, ma cambiano a seconda del bagaglio personale dei soggetti. Sarà interessante sapere meglio come funziona in concreto nei programmi impostati su odio e paura.

da roma a osaka

E’ certo comunque che, nella nuova situazione della comunicazione, la realtà – diciamo pure la verità – viene facilmente travolta. Questa manipolazione si verifica soprattutto lontano dai centri più attivi o dalle grandi città, dove la molteplicità delle fonti di conoscenza e confronto produce qualche antidoto in più.

Un discorso diverso va fatto sulle università, ancora abbastanza separate dall’assetto economico funzionante delle società. La maggiore autonomia, unita all’enorme crescita che la tecnologia (grazie anche alla rete) porta a studenti (e a docenti) genera maggiore libertà anche nella formazione dell’opinione. Sembra incredibile, ma chi studia negli atenei ragiona in modo simile ormai rispetto ai compagni di studi in tutto il mondo. Roma, Milano, Parigi, Harvard. Ma anche Pietroburgo, Osaka, Pechino.

studenti e prof

Non credevo ai miei occhi leggendo gli elenchi, nomi e cognomi degli studenti e prof scientifici delle università di Mosca e Pietroburgo. Più di un milione di firmatari contro la guerra in Ucraina, ha scritto sul Corriere Fabrizio Dragosei. 

Peraltro il livello delle traduzioni in tempo reale (DeepL) è diventato ottimo. Non solo nei testi scritti, ma anche orali. 

Il giornalismo potrebbe fare molto indagando e raccontando questa sintonia sui valori umani primari che sembra davvero cresciuta in questi anni, soprattutto grazie alla comunicazione di fatto globale. 

retorica nostalgica

Così da una parte gli uomini e le donne in tutto il mondo vanno avanti nella conoscenza e quindi nella consapevolezza, pure in qualche modo nei paesi “autoritari”. Ma dall’altra, in concreto, anche nelle democrazie, per un paradosso, raramente l’opinione pubblica sui beni essenziali diventa generale e forte.

Certamente le domande che ci facciamo sul giornalismo mancante non sono una retorica nostalgica. Un affollato corso alla Sapienza (anno accademica 2022-2023) nel programma di ricerca concordato tra l’università e la Fondazione Murialdi era intitolato “Senza il vero giornalismo la democrazia muore”.

watergate e greenpeace

Per non deprimerci troppo, si possono ricordare le occasioni nelle quali il giornalismo è stato decisivo in casi assai difficili. Il Watergate, le carte del Pentagono per il Vietnam, l’affondamento della nave di Greenpeace che bloccava gli esperimenti nel Pacifico, il corpo del piccolo Aylan Kurdi sulla battigia in Turchia, le 600 manifestazioni in tutti i cinque continenti con la bandiere contro la guerra in Irak (quando il New York Times scrisse che era nato “un nuovo soggetto pubblico internazionale”), i popoli in piazza a Parigi per la libertà di stampa l’11 gennaio 2015 dopo la strage nel mensile satirico Charlie Hebdo, l’incendio a Notre Dame con i canti anche di musulmani mentre la chiesa bruciava, l’ondata contro i femminicidi con il film della Cortellesi “C’è ancora domani”. Furono i giornalisti a smontare la sanguinosa trama tra i servizi segreti deviati e gli eredi del fascismo italiano nella strage di piazza Fontana il 12 dicembre 1969.

cronisti a gaza

Ma oggi che cosa impedisce che il giornalismo faccia con efficacia il suo compito al servizio della comunità? 

Settanta organizzazioni (media e società civile) a luglio hanno chiesto a Israele di ammettere giornalisti a Gaza perché, con un racconto indipendente di quel che accade, si possa porre fine a quel che sempre più prende le forme di un genocidio del popolo palestinese voluto da Netanyahu. Dal New York Times al Guardian, alle grandi agenzie, c’è tutto il giornalismo internazionale. Per l’Italia inizialmente c’era solo la Federazione della stampa. E poi anche Corriere, Repubblica, la Stampa. 

Non hanno fatto entrare i reporter indipendenti, i bambini continuano a morire. Ma l’iniziativa dice che i giornalisti non stanno rinunciando  alla propria “mission”. 

A Gaza come in Ucraina, solo il giornalismo può mettere in campo i fatti che possono costruire una opinione pubblica generale talmente forte da superare i muri esistenti. Ma deve farlo. Non può farlo nessun altro.

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