Piero Valesio è un giornalista che ha trascorso la quasi totalità della sua lunga carriera nelle redazioni sportive di giornali e televisioni. Quella di TuttoSport (per oltre trent’anni) e quella di SuperTennis (per quattro stagioni, da direttore) sono state le due più longeve. Oggi Valesio scrive sul quotidiano Domani e con Absolutely Free Libri ha appena mandato in libreria “Racchette di guerra”, un breve saggio in cui ripercorre 18 storie di tennisti che “dalle battaglie sui campi sono passati a quelle con le armi”, come recita il sottotitolo.
volti rugosi
Valesio, che è anche un ottimo tennista da circolo (stile classico, servizio più preciso che potente, abile frequentatore della rete quando se ne presenta l’occasione), negli ultimi anni ha raccontato su libri e giornali la storia fortunata di Jannik Sinner e Jasmine Paolini, delle due squadre azzurre di Coppa Davis e Federation Cup, arrivate a conquistare i due preziosi trofei, ma anche la drammatica vicenda di Alex Dolgopolov e Sergij Stakhovsky, due notissimi giocatori ucraini del circuito Atp che poche settimane dopo l’invasione russa decisero di mollare racchette e borsoni per arruolarsi nell’esercito di Kiev. “Le loro foto su X con lo sguardo segnato dalla fatica, i volti rugosi e il mitra in mano mi avevano colpito parecchio perché parevano del tutto diversi da quelli che fino a pochi mesi prima avevano sfidato Federer o Nadal sui campi di tutto il mondo”, scrive Valesio, che è stato anche collaboratore del Messaggero e di Sport Mediaset, nelle prime pagine del libro.
stessa bandiera
“C’era un legame fra il loro essere tennisti il cui nome, in ogni occasione, è accompagnato nelle grafiche che li presentano dalla bandiera del loro paese e quella stessa bandiera che compariva sulle divise militari al fronte? Oppure, trascinati dagli eventi, dopo tanto tempo trascorso a occuparsi più o meno esclusivamente di salire su aerei e poi scendere, prendere possesso di camere d’albergo, badare che l’alimentazione fosse corretta e rispettare i tempi dell’allenamento e delle partite i due in questione avevano sentito il bisogno di impegnarsi in qualcosa di completamente diverso, di più rischioso, di ineluttabile come la guerra? Ho tentato di capire cosa li aveva spinti, perché, quanto avevano desiderato calarsi nei nuovi panni militari e quanto invece avevano tentato di tenersene lontani, ma poi gli eventi avevano scelto per loro”.
inferno di stalingrado
Ecco allora, in questo sorprendente viaggio alla riscoperta di campioni del “serve and volley” prestati a trincee e mitragliatrici, le parabole di Jan Borotra (da Petain a De Gaulle), di Tony Wilding (da Sarajevo al crinale di Aubers), di Baworowski, Henkel e Von Metaxa, che passarono dalle battaglie sui campi centrali all’inferno di Stalingrado, loro senza mai fare ritorno. Racchette di guerra furono quelle dei fratelli Ashe, il leggendario Arthur, campione di Wimbledon e di Forest Hills e suo fratello Johnnie, che combattè in Vietnam. Racchetta di guerra fu quella di Dwight Davis, l’inventore della Coppa, quella di Yvon Petra, l’uomo di Saigon.
guerra di trincea
Certe partite che hanno fatto la storia del tennis sono state vere battaglie del Piave dove le palline bianche (poi gialle) venivano sparate sopra una rete, e così Valesio non ha evitato di misurarsi con l’abusata metafora dello sport come guerra combattuta con altri mezzi, terreno impervio che ha visto tanti cadere senza gloria nelle sabbie mobili della banalità. “Il tennis è una versione cristallizzata dello scontro bellico, certificato dalla distanza fra i due (o quattro) giocatori”, spiega invece il giornalista piemontese, superando il turno delicato con dignità e brillantezza, “La loro è una guerra di trincea di inizio ventesimo secolo. Il giocatore cammina lungo il suo corridoio scavato spesso inospitale, pericoloso, infido. Ogni tanto si sporge oltre il limite della trincea per scrutare l’orizzonte e cogliere dei sogni dal suo omologo che, a sua volta, lo sta guardando da un’altra trincea. Cerca di intuirne le intenzioni, di capire quando potrà andare all’assalto schizzando fuori da quella che impropriamente potrebbe essere definita come una “comfort zone” per lanciarsi in un assalto alla baionetta”. “Racchette di guerra” è un lavoro documentale curioso e solido, mai retorico.