di FABRIZIO PALADINI
Di solito c’è una bella luce a Zara, capitale della Dalmazia, e anche un bel mare. L’aveva scelta Ettore d’Aco come sua residenza dopo la pensione, lui che della luce aveva fatto uno degli elementi principali della sua professione. Ettore era un fotografo, o meglio un fotoreporter. Aveva 82 anni, ma a vederlo sembrava sempre uguale a ieri e perfino all’altro ieri. Era uno dei mitici fotografi del Messaggero, anni ’70-’80-’90 e qualcosa anche dopo. Era titolare di una squadra di cui, dopo più di 50 anni, ancora si parla, perché le cose belle non si dimenticano e anzi, nel tempo, acquistano più luce.
Per capire cos’era quella squadra e il bene che ha fatto al mestiere del giornalismo bisogna ricordare cos’era il Messaggero e come e quanto fosse legato alla sua città. Mai come allora si identificava Roma con il quotidiano di via del Tritone. Era – Il Messaggero – lo specchio, l’anima, il cuore di una città complicata, caotica, sfrontata e sempre votata ad affermare la propria centralità politica, geografica, economica. Un continuo ondeggiare tra tradizione e modernità. “Se non lo dice Il Menzognero, non può essere vero”, dicevano i romani indolenti e cinici, che però ancora facevano la fila alle edicole.
un vecchio albergo
Il cuore di questo giornale, che pulsava dentro un vecchio albergo di forma triangolare che si chiamava Hotel Select, erano le pagine della Cronaca di Roma e quelle dello Sport. Il delittaccio e la vittoria della Roma (non ancora Magica) erano motivo di vendite straordinarie, anche 30/40 mila copie in più. Se Il Messaggero sfiduciava il sindaco era crisi politica, se attaccava i commercianti si doveva rivedere il prezzo del caffè, se si decideva che il giorno dell’Epifania doveva tornare festivo, si poteva essere certi che lo slogan “Aridatece la Befana” avrebbe vinto.
Si facevano campagne su tutto: sulle auto blu usate per fare la spesa (e lì le foto di Mario D’Ilio furono prova del malcostume e motivo di scuse a raffica), sulla qualità del pane, sulla correttezza degli scontrini (“Se il conto non torna, mandatelo al Messaggero”), sull’assenteismo nei ministeri. Ma anche su temi di cronaca nera: la delinquenza comune, il terrorismo, la droga, la prostituzione. Inchieste, paginate intere, tre o quattro cronisti impegnati sullo stesso argomento per settimane e poi lettere, tante lettere dei lettori che ti davano il senso di appartenenza, l’orgoglio di lavorare per informare davvero e di esercitare un “contropotere”, che la gente apprezzava, seguiva e sosteneva.
Whisky alle cinque
Per fare questo c’era ovviamente la squadra dei giornalisti (nella Cronaca di Roma siamo stati anche in 40, tutti a lavorare spesso contemporaneamente, a picchiare sui tasti delle Olivetti, a rispondere al telefono, molti (quasi tutti) fumando e bevendo whisky anche alle cinque del pomeriggio.
C’era poi un’altra squadra, al quinto piano, col soffitto spiovente come una mega mansarda. Era il reparto fotografico dove vivevano – ma sarebbe meglio dire bivaccavano – i grandi fotografi del Messaggero, senza i quali tanta di quella forza che Il Messaggero sapeva mettere in campo non ci sarebbe stata.
poca luce
C’era Gianni d’Aco (il Capo) e suo fratello Ettore. Il primo era per tutti noi “Giannidaco”, mentre il fratello, più mingherlino e peso leggero, era per brevità “Dachetto”. Poi c’era Alberto Bandinelli, trasteverino di piazza in Piscinula, classico romanaccio, svelto di parola, sarcastico, cattivo ma buonissimo. C’era Roberto Bonifazi (soprannominato da Bandinelli “Poca Luce”) con occhiali da miope da sette diottrie per parte, che teneva legati dietro per non farli mai cadere, se no addio foto. C’era Mario D’Ilio, il gigante buono, una specie di armadio a tre ante, molto utile nei momenti di conflitto, che naturalmente seguivano a quasi ogni servizio dove dovevi “rubare” la foto. C’era Ermando Di Quinzio, abruzzese testa dura ma elegante in ogni suo reportage, dove cercava e sapeva trovare sempre qualcosa in più. C’era Ugo Collini, il più giovane, con i capelli lunghi, poteva sempre entrare nei cortei che allora attraversavano Roma ogni giorno e uscire con ottime istantanee. C’era – arrivò qualche anno dopo dal concorrente Il Tempo – Rino Barillari, the King, di cui ogni pronto soccorso degli ospedali romani ha un registro di ingressi clandestini, di ricoveri, di referti, per la sua indomabile attitudine alla provocazione pur di ottenere la foto, perché “La guera è guera”.
numero civico
Già, la foto. Il mio capo della cronaca nera di allora (1979) si chiamava Aldo Santamaria. Non era proprio un progressista e il suo mantra era: “Non tornare se non hai la foto del morto”. Delitto o incidente, suicidio o morte naturale non faceva differenza. La “Carta di Treviso” all’epoca era qualcosa di inimmaginabile.
Per cui si partiva: cronista, fotografo e autista (anche gli abilissimi guidatori erano parte di quella formidabile squadra). Con le pagine dell’inserto telefonico del Tuttocittà si cercava la strada, dal radiotelefono collegato con il capocronista si riceveva il numero civico e vai con dio. Lì i fotografi (poi giustamente rinominati “fotoreporter”) facevano carte false per ottenere la foto: “Signora, purtroppo abbiamo solo l’immagine orrenda del cadavere sfigurato, non avrebbe una bella foto di suo marito, magari in famiglia così lo ricordiamo in modo più degno?”.
più veloci della polizia
Alberto Bandinelli girava con una fototessera nel portafoglio e diceva al congiunto quasi piangendo: “Vede, questo è mio fratello, è morto nello stesso modo (omicidio, suicidio, incidente a seconda dei casi). So cosa sta provando”. E quello a piangere con lui, poi si scioglieva e quasi sempre dava la preziosa immagine. Le foto si portavano via per non farle trovare ai concorrenti – spietati anche loro – del Tempo o di Paese Sera, e si restituivano due giorni dopo. Una volta con Ermando Di Quinzio andammo a casa di un ragazzo ammazzato per un regolamento di conti. La madre non sapeva ancora nulla (eravamo stati più veloci della polizia) e dovemmo informarla noi. Mentre lei disperata piangeva io la portai, abbracciandola, in cucina, mentre Ermando fotografava tutte le immagini della vittima con i genitori, con la fidanzata, con gli amici, che aveva trovato attaccate alle pareti. Due iene.
terrorista gravissimo
O chissà quante volte, per fotografare un ferito in ospedale, indossavamo il camice bianco che avevamo in macchina, fingendoci medici o infermieri. Con il brigatista Prospero Gallinari appena arrestato dopo un conflitto a fuoco andò così, al San Giovanni. Ero con Roberto Bonifazi mentre passava la barella con il terrorista gravissimo: lui da sotto il camice tirò fuori la Nikon F1 e scattò a ripetizione, muovendo il pollice perchè ancora le macchine non avevano il motore.
O quell’altra volta che con Mario D’Ilio dovevamo fare un servizio su un’attrice morta per droga. Lui cominciò a scattare e presto gli amici si imbufalirono, lo circondarono e lui – come un vero quarteback di football – mi lanciò la macchina con il rullino e mi disse di scappare in macchina. Dopo cinque minuti tornò inseguito, pestato e sanguinante. Entrò al volo, sgommata e via di corsa al Tritone.
consiglio di disciplina
Non sono molto orgoglioso di questi sistemi per ottenere notizie e foto ma quelli erano i tempi e quasi sempre Il Messaggero arrivava prima e meglio degli altri. Oggi per molto meno saresti deferito al Consiglio di disciplina, o addirittura potresti finire a Regina Coeli, ma that’s it.
Questo aspetto cinico de “la foto ad ogni costo” è solo una parte di una circonferenza molto più ampia, perché quella era una squadra di fotografi veri, che sapeva coniugare l’esigenza della cronaca con la qualità che valse loro premi prestigiosi e riconoscimenti. Il giornale valorizzava il loro lavoro e sempre più spesso la foto veniva “firmata” e messa in prima pagina, alla stregua di un editoriale importante. Ricordo le trasferte in Irpinia per il terremoto con Bandinelli partito con due mele e una scatola di biscotti: doveva stare una notte, rimase fuori un mese. O le foto di Di Quinzio durante l’attentato al Papa, o quelle di Barillari durante gli anni bui del terrorismo. O le trasferte fatte ovunque al seguito di fatti non più solo “romani”. Perché quel giornalismo di allora investiva sulla qualità: dalle foto agli archivi, dagli strumenti tecnici ai correttori di bozze.
famiglia allargata
Di tutti questi fotografi non saprei dire un solo nome di uno a cui non ho voluto bene. Con quattro di loro presi anche per un po’ una casa in affitto a Rovere, in Abruzzo per i week end a base di polenta, salsicce e Montepulciano.
Al Tritone si andava su al quinto piano a stampare le nostre foto e loro erano sempre disponibili a un ingrandimento particolare, a un ritratto, un regalo da fare alla ragazza di turno. Ermando mi insegnò anche a sviluppare e a stampare. Alberto era sempre pronto per un piatto di fettuccine, Ettore e Gianni si beccavano tra loro per proteggersi l’uno con l’altro. Rino offriva l’aperitivo a via Veneto. Una famiglia allargata in cui il trio che saliva sull’auto (autista, fotografo e cronista) era una monade, tutti per uno, uno per tutti. E la cosa veramente importante è che dopo 50 anni, ce lo ricordiamo ancora tutti così bene. Perché le cose belle lasciano la luce e anche la morte non è mai buio ma evoca ricordi. E la memoria ci tiene in vita.
Orgogliosa di aver fatto parte di questo passato che racconti e che mi sembra di rivedere anche con gli occhi di mio padre.
Si veramente un pezzo magistrale, in cui emerge la capacità di raccontare i fatti immersi nell’atmosfera che li circondava. Scuola della Cronaca del Messaggero. Io certe cose purtroppo (!) non le ho vissute: il whisky in redazione me lo sono perso, e anche Gallinari. Nel 79 andavo ancora a scuola. Ma quell’atmosfera l’abbiamo vissuta e respirata pienamente in tanti. E perfino da novellini, quando si usciva in formazione con l’autista (anche loro degli amici, dei personaggi) e il fotografo (uno meglio dell’altro, ognuno con il suo stile e il suo carattere) ci sentivamo una potenza. Ed è vero, Fabrizio, lo eravamo. Quel giornale era una potenza. E ci ha insegnato tanto.