di ALBERTO FERRIGOLO
“L’unica legge che può servire al nostro sistema è quella che dice: sei giornalista se vivi di giornalismo, punto. E si diventa giornalisti in futuro solo attraverso l’accesso universitario. Basterebbe a garantire professionalità e trasparenza”. Poi un richiamo alla categoria: “Fate attenzione a cosa andate a votare e per chi alle prossime elezioni per l’Ordine”.
A pochi giorni dal voto per il rinnovo dei Consigli regionali e di quello nazionale, Alessandra Costante, segretaria della Federazione nazionale della Stampa (Fnsi), giornalista al Secolo XIX di Genova, in carica dal febbraio 2023, fa il punto sullo stato della professione: “È messa male – dichiara – nel senso che dovrebbe avere una grande spinta all’innovazione e invece ha grossi problemi”.
Quali sono le resistenze al cambiamento?
“Innovazione non significa fare i giornalisti in maniera differente, il lavoro è sempre quello: cercare le notizie, pubblicarle, ricercare la verità. Il punto è che questo lavoro è sempre meno declinato sui mezzi tradizionali e sempre più su altri mezzi”.
Cosa comporta?
“Penso al Consorzio IrpiMedia, composto da giornalisti che lavorano a inchieste e le pubblicano online. Per sostenerle accedono a bandi europei, fanno accordi internazionali, ma moltissimi di questi colleghi, che sono bravissimi, non sono nemmeno iscritti all’Ordine”.
Per quale motivo?
“Nonostante gli sforzi compiuti con grande coraggio in questi anni dal Consiglio nazionale dell’Ordine per dare chance in più di iscrizione a chi davvero svolge la professione, molti Ordini regionali hanno una visione ancora ‘fordista’ della professione, non contemplano giornalisti che lavorano per due mesi, sei, un anno, su un’inchiesta e non contemplano neppure che possano avere finanziamenti dall’Europa, al posto di uno stipendio pagato da un’azienda editoriale. È uno dei tanti casi d’inadeguatezza rispetto alla professione”.
Dicevi “siamo messi male”, ma allora che professione è quella del giornalista oggi?
“Siamo sempre più vecchi, sempre più poveri. Un lavoratore coordinato continuativo guadagna circa 11 mila euro l’anno, secondo la ‘media del pollo’, una partita Iva è sotto i 18 mila e la retribuzione media è sotto la media delle pensioni. Vuol dire che le pensioni hanno superato le retribuzioni ed è il motivo per cui l’Inpgi è andato com’è andato… Oggi, per altro, abbiamo altri 350 prepensionamenti finanziati dal governo con la legge 416. Significa, da un lato l’uscita di colleghi dal mondo del lavoro, ancora giovani, a 62 anni è presto, dall’altro un ingresso limitato di nuovi colleghi. Oppure colleghi che aspettano da anni d’avere uno sbocco”.
Come s’accede oggi alla professione?
“Il solo modo per entrarvi, almeno nella carta stampata, è quello provocato dal disastro dei prepensionamenti, questa la situazione…”.
Ai tanti prepensionamenti corrispondono altrettanti o quasi ingressi di forze giovani?
“Giovani, poi…, parliamo di 30-35enni, questa è l’età media. Ogni due prepensionati viene assunto un nuovo giornalista. Questo provoca squilibri, in un momento in cui c’è sempre più bisogno d’informazione. Che rischia d’esser sempre meno professionale e meno adeguata. E poi abbiamo il problema vero, grosso, dell’Intelligenza artificiale”.
Sei pro o contro? Come viene affrontata l’AI?
“Dico che con l’AI dovremmo fare i conti. Non c’è snobismo nel dire no all’Intelligenza artificiale, non siamo contrari, ma lo siamo alla sostituzione etnica dei giornalisti con l’AI, cosa assai differente”.
Addirittura sostituzione etnica…
“Riteniamo che l’informazione di qualità debba esser fatta da giornalisti, esseri umani, e che l’Intelligenza artificiale possa esser un aiuto e un sostegno, ma solo se al centro della produzione delle notizie c’è il giornalista. Per questo sabbiamo chiesto ai Comitati di redazione di adottare tutti gli strumenti per valutare l’ingresso delle tecnologie, anche dell’AI, attraverso l’art. 42 del contratto. Stiamo chiedendo ai Cdr di valutare anche le ricadute occupazionali che può avere un’innovazione simile, che per altro da anni circola nei giornali sotto svariate forme”.
Ora che uso se ne fa?
“Ha raggiunto uno sviluppo talmente ampio che qualsiasi sistema editoriale dotato di AI fa il titolo, prende il pezzo dalla pagina cartacea, cerca la foto, mette la didascalia, lo mette online ”.
Impatto sulla forza lavoro?
“Se non regolamentata, AI potrebbe portare al 30% in meno di addetti alla produzione delle notizie. Non siamo tutti inviati di guerra…, oggi, molto banalmente, la gran parte fa quel lavoro oscuro del desk, che però consente al lettore d’avere un giornale”.
Che professione è mai diventata?
“Invecchiata e precarizzata, ma lo è perché le leggi che la regolano sono inadeguate”.
Intendi quella del ’63 che istituisce l’Ordine?
“Non solo, la legge sulla stampa è del 1948, quella sull’Ordine del ’63, la 416 sulla riforma dell’editoria nasce nell’81 per la trasformazione produttiva dal ‘caldo’ al ‘freddo’. Sono tutte superate. Oggi siamo in condizioni totalmente differenti. Non c’è una norma contrattuale, una legge che ci dica come può essere utilizzata l’AI nelle redazioni e tutto è lasciato più o meno al coraggio dei Cdr”.
Chiaro, ma cosa centrano questi problemi con l’Ordine?
“Centrano, eccome! L’Ordine professionale vive su una legge del 1963, c’erano giornali di grande formato in bianco e nero, c’era la tv ma non il flusso informativo d’oggi, due canali di Stato. Siamo in un altro mondo. Nel corso di quest’ultima consiliatura l’Ordine ha approvato una proposta di riforma della professione (che può essere ancora migliorata), a partire dall’accesso universitario al giornalismo. Ma la maggioranza parlamentare ha preferito concentrarsi su altri temi, come il riequilibrio della presenza dei pubblicisti nei consigli degli Ordini regionali e nazionale. Una posizione antistorica. Così è rimasta la vecchia legge, con la quale molti di coloro che fanno informazione su piattaforme ‘moderne’ non possono essere giornalisti. Stefano Feltri, per fare un esempio, fa una bellissima newsletter, può farla perché è già giornalista, ma un ragazzo che oggi s’inventasse un modo per fare giornalismo sulla base d’una newsletter non riuscirebbe a iscriversi all’Ordine”.
Perché non previsti, riconosciuti o che altro?
“Perché l’attuale legge ordinistica prevede per l’iscrizione tutta una serie di obblighi, anche molto giusti, ma non la regola principale. E questo impastoia l’Ordine…”.
Regola che sarebbe… e invischiato in cosa?
“La regola principale: è giornalista chi fa il giornalista e vive di questo, punto. Poi puoi essere pubblicista o professionista, sono suddivisioni che al giorno d’oggi non hanno più senso. Il pubblicismo nasce per dare cittadinanza sui vecchi giornali a esponenti delle professioni liberali, avvocati, medici, architetti, notai, per far scrivere loro saggi o articoli, mentre oggi il pubblicismo raccoglie colleghi che, per un motivo o l’altro, non sono riusciti a diventare professionisti, oppure persone che la professione non l’hanno neanche mai praticata”.
L’Ordine come si dovrebbe strutturare?
“Dovrebbe darsi poche regole ma chiare, improntate al principio che chi vive di giornalismo è giornalista”.
Come avviene in altri Paesi, è sufficiente?
“Esatto. Per esser pubblicisti, poi, si deve avere un altro lavoro prevalente: fai il verduraio e scrivi una volta ogni tanto. Questo è il pubblicista. Le altre professioni non sono organizzate così. Non è che faccio la giornalista e ogni tanto, perché metto la fasciatura a mia madre, sono pure medico. Non funziona così”.
I pubblicisti odierni chi sono, in verità?
“Sono giornalisti a tutti gli effetti, ma nella grande massa dei pubblicisti andrebbe separato il loglio dal grano, ovvero chi ha preso in qualche modo il tesserino per scroccare le partite allo stadio, ma non è giornalista, deve uscire dall’Albo”.
Quanti sono i giornalisti in Italia?
“107 mila. Un’enormità. E rappresentano una massa di manovra per gli editori”.
Che significa?
“Ci sono editori che offrono 5 euro a pezzo ai colleghi, e quando si obietta ‘sono un po’ pochi’, ribattono: ‘Dietro ci sono altre persone che accettano di fare il tuo stesso lavoro per 4,5 euro’. È la massa di manovra creata da un elenco pletorico, in cui c’è di tutto: pubblicisti che lavorano a tempo pieno e che dovrebbero esser giornalisti a tutti gli effetti, pubblicisti che hanno fatto il mestiere molti anni fa, ma che non lo fanno più, pubblicisti inoccupati senza mai aver avuto un’occupazione, gente che ha ottenuto l’iscrizione all’Albo un po’ così…”.
Cosa intendi per “un po’ così”…?
“Una pubblicista una volta mi raccontò che si pagò il tesserino, nel senso che diede all’editore che la faceva scrivere i soldi necessari a pagarle la ritenuta d’acconto per dimostrare la prestazione d’opera. È chiaro che intorno al pubblicismo s’è instaurato un mercimonio, ma ora conviene a tutti porre una regola. Sul giornale si può scrivere ugualmente, nessuna violazione dell’articolo 21, semmai questa c’è ogni qualvolta un giornalista non riesce a esser altamente professionale per informare perché, pagato una miseria, è costretto a fare copia/incolla degli articoli”.
Nel frattempo l’Ordine continua a sfornare iscritti, sia pubblicisti sia professionisti.
“Per il futuro l’Ordine ha un solo obbligo, proporre una legge professionale moderna, che prenda in esame l’unico criterio utile: vivi di giornalismo, sei giornalista. E dire una cosa altrettanto semplice: si diventa giornalisti solo con un corso di laurea, con l’accesso universitario. È giusto sottrarre agli editori la selezione e la possibilità o meno di diventare giornalista”.
Andrebbe riformato o rivisto anche l’esame?
“Sì, la legge professionale come l’esame”.
Ci dovrebbe essere più interazione tra Ordine e sindacato?
“L’interazione c’è. Tant’è vero che è stato il sindacato a preparare per l’Ordine la proposta di equo compenso poi depositata al Ministero di Grazia e Giustizia. Stiamo aspettando che il governo si ricordi che i giornalisti sono lavoratori come gli altri: stiamo chiedendo al ministro della Giustizia che vengano dati ai giornalisti gli strumenti per andare a chiedere la liquidazione giudiziale dei compensi, quindi l’equo compenso; e al sottosegretario Barachini la riapertura del tavolo di confronto con editori e Ordine, sospeso anni fa”.
E lo stato del mercato del lavoro?
“Assolutamente inadeguato, sproporzionato. In Italia ci sono, mal contati, 30-35 mila posti di lavoro per giornalisti, ma cosa me ne facciamo degli altri 75 mila? Dei 107 mila, 30 mila circa lavorano, meno del 50% ha una posizione previdenziale aperta e vive di questo lavoro, ma più del 50% non ha mai avuto una propria posizione!”.
I disoccupati quanti sono?
“Stanno crescendo, ma non sono ancora la maggioranza. Sono di più gli inoccupati, quelli che non hanno mai avuto un posto di lavoro e mai l’avranno. La maggioranza sono pubblicisti, collaboratori saltuari, che hanno preso il tesserino e in qualche modo se lo sono anche pagato, a volte, perché ci sono regioni d’Italia in cui funziona pure così…”.
C’è chi dice che l’Ordine sia un ‘tesserificio’, è così?
“In alcune regioni lo è. Però bisogna pure distinguere: un conto è l’Ordine nazionale, che sta promuovendo un’opera moralizzatrice nel cercare di riformare la legge, anche se serve uno scatto ulteriore, altro conto gli Ordini regionali, in cui talvolta gli iscritti sono centinaia e i giornalisti che veramente lavorano poche decine. C’è un evidente squilibro del sistema”.
Quest’Ordine è necessario, è funzionale alle esigenze d’una professione in continua evoluzione?
“Come enti di categoria siamo affezionati all’Ordine, la Fnsi è il sindacato degli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Però è pur vero che l’Italia è l’unico Paese europeo in cui c’è un Ordine professionale come il nostro. Mi si dice che questo assicura la deontologia, l’osservanza del codice deontologico, ma non vedo i colleghi tedeschi penalizzati dal punto di vista deontologico, oppure inosservanti delle regole. O i francesi fare un pessimo giornalismo perché privi di obblighi, oppure i colleghi americani esser meno deontologici perché non hanno un Ordine cui appartenere. Le regole deontologiche vanno governate attraverso principi anche banalmente aziendali e di legge”.
C’è l’European Media Freedom Act di cui si chiede al governo italiano l’adozione…
“Esatto, e dice delle cose, così come la Costituzione italiana, la legge detta regole comportamentali, basterebbe attenersi a quel che già c’è. In Italia c’è l’Ordine, bisogna trovare il modo di farlo funzionare bene, così non va. E faccio un richiamo ai colleghi: fate attenzione a cosa andate a votare e per chi votate alle prossime elezioni”.
Troppe anomalie?
“Di più. Nell’Ordine girano troppi soldi, tanti. Se i gettoni di presenza fossero un po’ meno ricchi non ci sarebbe questa corsa a occupare posizioni. Penso ci voglia anche sobrietà nella gestione delle risorse di un ente che ha molti fondi, ma che dovrebbero esser destinati al sostegno dei colleghi e non alla partecipazione ai Consigli dell’Ordine. E soprattutto bisogna votare chi fa il giornalista: sono un po’ stufa d’avere un Ordine in cui gente che non ha mai fatto il giornalista o non lo fa più da decenni decida di come devo fare la professione io che sono ancora al lavoro”.
Andrebbe anche rivisto il criterio elettorale?
“Ci fossero liste con nome e cognome sarebbe tutto più chiaro, ma il problema di come si vota all’Ordine arriva dopo. Il tema principale è ridisegnare l’Ordine perché aderisca alla professione attuale, a quella del futuro e non sia soggetto a regole d’una professione che non esiste più. Per informare si usano anche altri mezzi, ci sono nuove figure professionali. Quest’Ordine non è adeguato a tutto ciò. Penso che l’unica soluzione sia avere una componente riformatrice seria che lo prenda in mano e lo traghetti verso il futuro”.
(nella foto, Alessandra Costante)