di ALBERTO FERRIGOLO

“Penso che vada fatta una pulizia dell’Albo dei giornalisti, una pulizia enorme, verificando chi effettivamente questo lavoro lo esercita e chi invece è solo massa di manovra. Specie tra i pubblicisti, perché tra i professionisti ci sono barriere d’accesso più elevate attraverso l’esame di Stato. Per i pubblicisti questo non accade e spesso si fanno delle istruttorie un po’ all’acqua di rose. Il punto è che si tengono fuori dal recinto dell’Albo dei professionisti, invece, coloro che questo mestiere effettivamente fanno”.

Classe 1948, 77 anni, Carlo Picozza ha lavorato a lungo a la Repubblica e in questi ultimi tre anni è stato consigliere di minoranza dell’Ordine del Lazio con i suoi compagni d’avventura, Gianni Dragoni del Sole 24 Ore e Pietro Suber di Mediaset, con la lista civica Riforma&dignità.  

Che Ordine è quello del Lazio, un bilancio di questa legislatura?

“È il secondo dopo la Lombardia, un Ordine importante, che concorre a determinare anche le linee, gli orientamenti, le direttrici dell’Ordine nazionale. Di fronte a questo penso però che a livello nazionale si sia fatto poco, perché siamo ancora legati a una proposta di riforma che è stata travolta dai tempi, nonostante la stessa maggioranza che governa l’Ordine nazionale pensasse di portare a casa qualche risultato”.

Ma la proposta di riforma è sufficiente o carente?

“A mio avviso mancano capisaldi importanti, come la riforma dell’accesso. Dare cioè la possibilità ai tanti colleghi che fanno questo mestiere d’accedere all’Albo dei professionisti o dei pubblicisti. Soprattutto nel secondo si allineano tante e tante figure professionali che di questo lavoro sanno poco o niente. Tra i pubblicisti, poi, c’è stata una sorta di ‘fabbrica’ delle tessere che ha segnato negativamente l’operato degli Ordini regionali, in particolare quello del Lazio. E sono proprio i pubblicisti con cui s’è alleata la maggioranza attuale, ad onta dei professionisti”. 

L’Ordine non rischia di rispecchiare una realtà diversa da quella che è la professione vera e propria?

“In parte è così. Abbiamo per buona parte molti pubblicisti che questo mestiere l’han fatto poco, qualcuno addirittura per niente. Ce ne siamo accorti perché nel mettere le mani nelle istruttorie delle pratiche ci siamo resi conto che non c’è stato rigore. E con i tre consiglieri pubblicisti s’è formata la maggioranza che ha governato l’Ordine, nonostante la nostra lista civica abbia ottenuto tra i professionisti quasi il 53% dei consensi”. 

Cos’è diventata, anche alla luce di questi ragionamenti, la professione del giornalista?

“C’è stata una sorta di proletarizzazione, per usare un’iperbole, una forzatura, della nostra categoria. Siano un po’ come erano i postini quando sono arrivate le innovazioni tecnologiche, dalle email alla Pec. Come c’è stata una falcidia dei postini, così sta accadendo anche per i giornalisti. È il combinato disposto della crisi economica con la diffusione di internet: da un lato, nel bilancio delle famiglie l’acquisto di un quotidiano si fa sentire – a fine anno sono centinaia di euro che se ne vanno – dall’altro la diffusione di internet ha consentito di informarsi a una platea molto più vasta di quella che comprava i giornali. Eppure, questo mestiere non è finito. Bisogna trovare gli spazi, gli strumenti, i media giusti perché tanta energia, tante risorse umane trovino uno sbocco nel mercato dell’editoria, diventato asfittico, complice una sorta di comportamento poco illuminato – per usare un eufemismo – anche da parte degli editori”.

Però questa “tutela”, quest’azione, attiene più al sindacato che all’Ordine…

“Vero, ma così il sindacato da solo rischia di condurre una battaglia solitaria, per questo è necessario che, al di là degli steccati o delle rispettive autonomie, ci sia un’unità d’azione tra sindacato e Ordine. Qui nel Lazio, ad esempio, tra l’Ordine e l’Associazione Ossigeno per l’informazione dovrebbe essere rafforzato il link, che nei fatti qua e là talvolta si manifesta. Dovrebbe esser rafforzato, contro le querele temerarie, mettendo in campo strumenti che rendano incisiva una nostra azione”.

L’Ordine dovrebbe intervenire di più e meglio sulla continua commistione tra informazione pubblicità?

“Certo. Spesso s’assiste, anche dentro giornali importanti, testate nazionali, a una sorta di ‘marchettificio’. Di fronte a tutto ciò è chiaro che gli impegni dell’Ordine, di un Ordine regionale importante come quello del Lazio, non possono essere quelli formali, burocratici, sia pure da adempiere”.

Quali dovrebbero essere invece?

“Occorre uno sforzo in più per dare risposte alle esigenze dei colleghi. Sforzi per aumentare la loro autonomia, la loro indipendenza, la loro libertà di giudizio, molto insidiata. C’è un esercito editoriale di riserva enorme, ci sono tanti giornalisti in panchina che funzionano come leve di ricatto nei confronti degli occupati. Occorre che l’Ordine, oltre agli adempimenti d’ufficio -tagliare nastri, scoprire lapidi, consegnare targhe- e a occuparsi personalmente, e a tratti anche personalisticamente di diverse vicende, miri a fornire servizi reali ai colleghi”. 

Quali dovrebbero essere questi servizi?

“Quelli d’una formazione mirata sul mercato del lavoro, che non sia più soltanto deontologica, ma cominci sempre più a diventare anche un aggiornamento professionale, che dia gli strumenti ai colleghi per lavorare meglio e di più sul campo”.

Fai un esempio.

“Corsi d’apprendistato ad uso dei videomaker, ad esempio, per strumenti come i video, sulle tante forme di giornalismi. Oppure per l’uso dello stesso telefonino nei casi d’emergenza. Cose pratiche”.

Anche l’accesso andrebbe riformato?

“Sì, a partire proprio dall’esame di Stato. Fino a qualche anno fa l’esame veniva fatto ancora con la macchina per scrivere…, ciò la dice lunga su come sembriamo dei brontosauri, non solo di fronte alle esigenze dei colleghi che stanno sul campo, ma relativamente alle questioni tecnologiche, organizzative e gestionali di questi anni. Come si fa a dare a tutti i candidati agli esami per l’abilitazione professionale un testo scritto come quello che può svolgere bene soltanto un collega che lavora nella carta stampata? La legge n. 69 del 1963, che istituiva l’Ordine, è nata quando c’erano i giornali di carta. A un videomaker si deve far fare un esame basato sulla sua esperienza e modalità di lavoro, sulla sua figura professionale. C’è bisogno di un’apertura nuova a questi modi nuovi di fare giornalismo. Spesso l’Ordine, su queste tematiche, appare chiuso e fermo”.

Alla luce di quel che dici l’Ordine sembra non aver senso, oppure ce l’ha ancora?

“Ha sempre meno senso se continua ad adempiere meramente alle funzioni d’ufficio. Può avere un senso se, ripartendo dalla sua missione, che è quella di assicurare ai cittadini, in base all’articolo 21 della Costituzione, un’informazione corretta e completa, tutela e garantisce i colleghi. Se per esempio promuove una Card che consenta ai freelance, ai colleghi meno garantiti, ai precari, d’essere tutelati e manifestare pienamente la propria autonoma libertà di scrittura e pensiero. Se promuove formazione gratuita, di qualità elevata e trasparente. E noi su questo, con Gianni Dragoni e Pietro Suber, ci siamo battuti a fondo”.

Anche gli assetti dirigenziali dell’Ordine dovrebbero tenere conto dei nuovi profili professionali? Forse ci vorrebbe un ricambio, altrimenti l’Ordine si riperpetua, di voto in voto, uguale a se stesso, stesse persone, stessi vizi…

“Lo stesso discorso fatto per la riforma dell’accesso va fatto anche per la composizione degli organismi dirigenti dell’Ordine. Che dev’essere una realtà speculare, per adeguarsi di più e meglio ai grandi sommovimenti che ci sono stati nel mondo dell’informazione. Devono entrare figure nuove. Adeguare l’Ordine alla propria base, alle sue figure professionali del nuovo mondo dell’editoria”.

Però ci sono giornalisti-giornalisti, pubblicisti, addetti stampa, comunicatori, portavoce… Possono stare tutti insieme?

“Ma gli stessi addetti stampa, pubblici o privati che siano, fanno un lavoro analogo a un collega delle agenzie. Sono una fonte istituzionale le agenzie e altra fonte gli uffici stampa. Però perché l’addetto all’ufficio stampa non può diventare professionista, a meno che non scriva per una testata regolarmente registrata? C’è da far pulizia negli elenchi dell’Albo, per restituire anche legalità e libertà di movimento alle nuove figure professionali. Con Dragoni e Suber, abbiamo fatto dentro questa maggioranza -che non era la nostra, ma nei confronti della quale ci siamo sempre mossi in maniera sempre responsabile- tante proposte, sia sul piano della formazione sia dell’equo compenso, e ottenuto una grande vittoria nel riconoscimento della Carta di Firenze”.

Ferruccio De Bortoli su Professione Reporter ha proposto una “Carta delle responsabilità”, a tutela d’un giornalismo di garanzia.

“Mi sembra un’idea giusta, da affinare e approfondire. Penso che sia una strada, accanto a tutte le cose che ci siamo detti, altrimenti da sola quella proposta non basta”.

Pubblicità, deontologia, regole da rispettare, sanzioni da comminare, i Consigli di disciplina vigilano a sufficienza?

“Penso di sì. Il nostro Consiglio di disciplina ha operato bene sotto la presidenza di Vittorio Roidi e anche attraverso le tante competenze che aveva al suo interno, ma al di là dei casi singoli, resta il grande bubbone delle sanzioni per i colleghi inadempienti nella formazione. E qui ho mie convinzioni”.

Quali sono?

“La formazione per i giornalisti non può esser un fatto obbligatorio per legge, ma per etica. Se scrivo un pezzo, non posso non prepararmi su quello specifico argomento, perché prima dell’Ordine a cacciarmi ci pensa il mio editore, o già mi ha cacciato il lettore, girando pagina o cambiando canale… C’è un obbligo che non può essere per legge, altrimenti si innescano tutta una serie di processi, dal mercimonio alle sanzioni disciplinari che intasano l’operatività dei Consigli di disciplina. Noi non abbiamo clienti come gli avvocati, abbiamo lettori, ascoltatori, spettatori. A quelli dobbiamo rispondere. Con l’obbligo etico e morale di formarci bene, il giorno prima, quando dobbiamo scrivere. E se andiamo in diretta tv, prima di andare in diretta. I cittadini meritano una sanità adeguata, cosa che non c’è oggi, così come un’informazione di alta qualità che rischia di perdersi. E questo scenario sarà ancora più cupo se non ci attrezziamo a governare l’avvento dell’Intelligenza Artificiale in redazione”.

(nella foto, Carlo Picozza)

3 Commenti

  1. Pensieri che sono alla base di una corretta informazione,necessaria soprattutto oggi, in questo contesto politico. Non servono “tuttologhi,” che poi sono solo “parolai” con eloquio che non dice pensieri.
    La serietà , soprattutto in questo campo, è viscerale.

  2. Articolo molto apprezzabile.Capace di orientare il lettore nelle pieghe di una professione molto diffusa,ma poco conosciuta da molti.

  3. Con Carlo siamo amici, ma da vecchio ed orgoglioso giornalista di agenzia (e poi di tante altre cose) quale sono, mi sembra molto sbagliato mettere sullo stesso piano il lavoro di un ufficio stampa e quello di un’agenzia d’informazione – e fino al punto di definire le agenzie “una fonte istituzionale”.

    Il fatto che, spesso, le agenzie (ma anche molti giornali) si limitino a “passare i comunicati”, vuol solo dire che non fanno bene il loro mestiere, che è di valutare e selezionare le informazioni, come dovrebbe fare ogni testata giornalistica.

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