Nelle carceri c’è la censura? Ai detenuti viene vietato di firmare gli articoli che pubblicano nei giornali realizzati all’interno degli Istituti? Domande che sorgono leggendo un passaggio di un testo di Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte Costituzionale, già ministro di Grazia e Giustizia e pubblicato sul Notiziario quotidiano dal carcere realizzato da Ristretti Orizzonti. Dopo aver fatto riferimento a leggi, alla Costituzione e allo stesso Ordinamento penitenziario, così scrive Flick: “Destano perplessità le voci che si colgono nell’ambiente penitenziario di tentativi e iniziative a livello locale e di interventi per imporre o vietare la sottoscrizione dei contributi di redattori detenuti alla ‘stampa’ nel carcere, o sulla lettura preventiva di quei contributi”.
Ne parliamo con Francesco Lo Piccolo, giornalista (per 15 anni dal 1986, al Messaggero di Roma), direttore di Voci di dentro, trimestrale scritto da esperti, giornalisti, docenti e da detenuti ed ex detenuti.
Lo Piccolo, che accade?
“Le voci a cui fa riferimento Flick nascono da fatti accaduti di recente in alcune carceri, dove giornalisti e volontari operano con laboratori di scrittura e giornalismo e con la realizzazione di notiziari diffusi anche all’esterno, sia in forma cartacea che online. Fatti in violazione dei diritti delle persone, messi in atto a Lodi, a Rebibbia, a Ivrea, a Trento”.
Quali fatti?
“A Lodi la Direzione dell’istituto pretende una lettura preventiva dei testi elaborati dalla redazione di Altre storie e pubblicati dal quotidiano della città Il Cittadino. Vuole inoltre scegliere gli argomenti sui quali le persone detenute possono scrivere, vietando espressamente temi come l’emigrazione ‘perché potrebbero essere in contrasto con la linea del governo sulla politica nei confronti degli stranieri senza permesso di soggiorno’ o sulla sessualità e sul diritto alla sessualità, come di recente ribadito dalla Corte Costituzionale”.
E a Rebibbia?
“Più o meno tre mesi fa la Direzione ha convocato Roberto Monteforte, giornalista che dal 2022 coordina il giornale interno ‘Non tutti sanno’, comunicando che persone che fanno parte della redazione non potevano firmare i loro articoli e che occorreva anche una liberatoria da parte degli stessi detenuti”.
A Ivrea e a Trento?
“A Ivrea prima hanno vietato ai detenuti di firmare i loro articoli, poi tre mesi fa hanno chiuso la redazione interna del giornale La fenice, edito dall’Associazione Rosse Torri e sospeso il permesso dell’ingresso in carcere dei volontari ‘per aver diffuso con i loro articoli un’immagine negativa della vita in carcere’. Avevano scritto di celle fatiscenti, sovraffollamento, mancanza di acqua calda, muffe alle pareti, griglie esterne alle finestre… Più o meno lo stesso è accaduto a Trento a Piergiorgio Bortolotti, responsabile del giornale Non solo dentro: dopo dieci anni di attività come volontario anche lui è stato messo alla porta con due sole parole, ‘non gradito’. Anche Bortolotti aveva scritto e raccontato quello che da anni si racconta su Corriere, Repubblica, Stampa eccetera, e cioè dell’inefficienza del sistema carcere. Sono episodi in violazione dell’articolo 18 dell’Ordinamento penitenziario (‘Ogni detenuto ha diritto a una libera informazione e di esprimere le proprie opinioni, anche usando gli strumenti di comunicazione disponibili e previsti dal regolamento’), dell’articolo 3 della Costituzione italiana (‘Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali’) e dell’articolo 21 (‘Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure’)”.
Perché tutto ciò?
“I motivi sono tanti: paura, Direttori alle prime esperienze, timori di ispezioni da parte del Dipartimento amministrazione penitenziaria, incapacità di comprendere che in carcere prima della punizione e della cieca obbedienza deve essere privilegiato il recupero della persona, da rendere innanzitutto responsabile. Anche nel 2005 nel carcere di Lodi -allora c’era un’altra Direttrice- fu chiuso il giornale interno, si chiamava Uomini liberi. L’idea appare sempre la stessa: i detenuti sono considerati reati che camminano… e non hanno diritti. Ma io sono un giornalista, oltre che un volontario nelle carceri, e il silenzio non lo pratico in alcun modo. Scrivere con i detenuti non può significare insegnare loro a fare dei bei temi, ma aiutarli a scrivere facendo uscire la loro voce interiore, quella soppressa in questo mondo dove comandano interessi e profitto. E ancora, non significa far accettare lo stigma del criminale, ma al contrario liberarli dallo stigma assegnato. Insegno a fare i giornalisti rispettando l’altro, liberi di dire la verità anche se fa male”.
Come intendete rispondere?
“Siamo riuniti in un coordinamento per dare forza a chi ha meno forza. Stiamo preparando un documento dove ribadiamo che tali atti comprimono l’operato del mondo del volontariato e rendono vano l’articolo 27 della Costituzione (‘Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’). Chiederemo un incontro al Dap”.
Parliamo di Voci di dentro e degli altri giornali delle carceri.
“Voci di dentro è nato nel 2008, da un’idea della Direttrice del carcere di Chieti, la dottoressa Avantaggiato. Mi chiese di aiutarla a fare il giornalino dell’istituto. Accettai e portai fuori il giornale: non poteva essere il giornale del carcere, doveva essere il mio giornale e quello dei detenuti. Soprattutto libero, non ufficio stampa del Dap. Oggi facciamo 72 pagine al mese, quasi duemila copie, è diffuso in tutta Italia, vi scrivono detenuti da tutte le carceri del Paese. Raccontiamo prima di tutto quello che non va. Per cambiare questa istituzione, per cambiare molte cose, comprese le persone. Rispettandole, innanzitutto. Secondo le regole della professione giornalistica, fondata su un codice deontologico poco rispettato. Dalla parte di chi non ha voce, dei deboli e non dei potenti.
Quanto agli altri giornali delle carceri, oltre a Non tutti sanno, c’è Ristretti Orizzonti, il più antico, nato a Padova nel 1998, direttore Ornella Favero, con redazioni anche negli istituti di Venezia, Parma e Genova, affiancato da una rassegna quotidiana degli articoli che si occupano di carcere, convegni e tanto altro. Poi, Carte Bollate, nato nel 2002, bimestrale, duemila copie, prodotto da una redazione di venticinque detenuti e detenute di cui fanno parte, come volontari, giornalisti professionisti ed esperti di comunicazione. La Direttrice è Susanna Ripamonti. C’è L’Oblò, realizzato a San Vittore: è il mensile della ‘Nave’, reparto a custodia attenuata per il trattamento di ex tossicodipendenti e alcolisti, che pubblica poesie e pensieri sulle attività del reparto, sul mondo di fuori, e offre riflessioni sull’assunzione di stupefacenti. Ancora a Milano, da qualche anno, esce In corso d’opera, ora diventato Opera news, realizzato nel carcere di Opera. A Bologna si realizza Ne vale la pena: la redazione, attiva da marzo 2012, è costituita da persone ristrette all’interno della Casa circondariale ‘Rocco d’Amato’ di Bologna, insieme ai volontari dell’associazione il Poggeschi per il carcere e al cappellano dell’istituto Marcello Matté; a Ferrara dal 2009 c’è Astrolabio, diretto da Vito Martiello e, dal 2016, curato da Mauro Presini. E’ finanziato dal Comune di Ferrara. A Napoli esce Parole in Libertà, laboratorio di scrittura giornalistica per i detenuti di Secondigliano e Poggioreale. E’ promosso dal Garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive delle libertà personali, dalla Fondazione Pol.i.s. della Regione Campania, dal quotidiano Il Mattino e dalla Fondazione Banco di Napoli; gli articoli vengono pubblicati da Il Mattino”.
(nella foto, Francesco Lo Piccolo)