di FRANCESCO FACCHINI
Corro il rischio di apparire eretico, di sembrare un matto che va internato perché non vive nella realtà, ma lo dico subito: non c’è mai stata un’epoca così piena di opportunità per fare giornalismo. Mai.
La tecnologia ci ha creato attorno un ecosistema dei media che è in rapidissima evoluzione e che nasconde grandi possibilità per i giornalisti. Il problema di queste opportunità è rappresentato dalla capacità di saperle cogliere e di saper evolvere grazie a queste. Non sto parlando certo dei valori fondanti della professione, sempre uguali e più che mai attuali in Italia in un periodo in cui vengono minati da varie minacce, ma sto parlando di un’evoluzione nei modi, negli strumenti, nei mezzi e perfino nei committenti. C’è una cultura “disruptive” che sta tracciando questa via e questa cultura è quella del mobile journalism.
Ecco la definizione di questa nuova disciplina del giornalismo. Il mobile journalism è quella filosofia professionale che interpreta la produzione di contenuti multimediali di carattere editoriale per il giornalismo o la comunicazione corporate realizzati con il solo ausilio di apparecchiature di produzione, lavorazione e codificazione utilizzabili in situazioni non statiche. Il tutto al fine di poter realizzare contenuti dallo storytelling unico (anche immersivo) e di poter procedere alla consegna o alla pubblicazione diretta in mobilità totale. Le device di produzione, lavorazione, codificazione e invio devono essere collegabili tra loro via wi-fi e, naturalmente, collegabili al web tramite connessione cellulare.
Raffinate suite di montaggio
Oggi smartphone e tablet, ma anche tutti gli hardware accessori per acquisire immagini e audio perfetti, hanno raggiunto un livello di qualità pari a quello degli hardware del mondo classico del video. In un ecosistema dei media che vede oltre il 60% del traffico Internet mondiale consumato attraverso device mobili, non si può negare che il modo più importante per creare nuovi linguaggi e nuove opportunità professionali debba e possa partire dagli stessi smartphone, da quell’oggetto che tutti i giorni tocchiamo almeno 200 volte e che è già da tempo strumento del lavoro giornalistico.
Tuttavia, in Italia, non ci siamo ancora accorti che dietro lo smartphone, banalmente sottostimato e utilizzato come una soluzione “B” quando non si possono fare le cose per bene, si cela un’intera cultura. Si tratta di un mondo che offre strumenti, supporti, microfoni, lenti, stabilizzatori, sportcam, droni e molti altri elementi i quali, combinati con delle app che sono vere e proprie suite di montaggio in grado di chiudere un prodotto di qualità televisiva dentro i confini dei vostri 5-6 o 12 pollici di schermo, danno possibilità operative di ogni genere. Basta chiedere a Claude Lelouch o a Steven Soderbergh, i quali hanno realizzato tre film in due con gli iPhone, quali sono le potenzialità degli smartphone. Sentirete, che risposta.
Ignorato dalle scuole
Eppure, in Italia, il mobile journalism (o mojo) non è ancora entrato nel sentire comune e dei programmi di insegnamento di tutte le scuole di giornalismo esistenti. Dovrebbe essere lo strumento principale per cercare nuove vie e nuovi linguaggi professionali. È, invece, lo spauracchio da cui salvarsi per la paura di cambiare o per il fatto che si commette l’esiziale errore di sottostimarlo, confinandolo a strumento di salvezza. Nei miei anni di studio della materia, di conferenze internazionali, di incontri con colleghi e docenti stranieri, di corsi in Università come la Iulm, Pavia, la Lumsa, nelle mie produzioni di reportage e documentari, ma anche di servizi per professionisti e aziende, ho visto invece la potenza dello strumento mobile andare in scena e costruire nuove vie di guadagno, di realizzazione e di espressione della professione giornalistica mia e di molti altri giovani studenti o più attempati colleghi.
Solo che questo non è diventato sistema, eccezion fatta per sparpagliate esperienze e simpatiche iniziative, come il festival di Mojo Italia. Anche solo parlarne in più di una Scuola di Giornalismo, cercando di interagire con quelle istituzioni che dovrebbero essere le custodi del futuro del giornalismo, è stata un’impresa. Sono andato a sbattere contro clientelismi, paure, parrocchie e parrocchiette. Non mi fermo e resto a disposizione delle istituzioni giornalistiche italiane, perché voglio servire i colleghi e indicare loro la strada del cambiamento. Nota a margine: il mobile journalism non è una minaccia per le differenti professionalità del giornalismo, ma un’opportunità in più per tutti e un linguaggio aggiuntivo che non svilisce quello esistente della videografia giornalistica comune e tutte le professionalità a essa collegate.
Produzione a tutto tondo
Con il mobile journalism il giornalista risparmia costi, dimezza i tempi, si smarca nel linguaggio, può proporre prodotti nuovi e cercare mercati nuovi, come quello delle aziende alle quali giornalisti e produttori obiettivi di contenuti servono come il pane. La tecnologia ha tolto agli smartphone qualsiasi limite operativo e li ha resi macchine potenti, in grado di trasformare il giornalista in un produttore di contenuti a tutto tondo: video, audio, foto, testi, video immersivi, grafiche, dirette. Tutte cose fatte in modo eccellente. Nel mercato delle app di montaggio ora ci sono colossi come la Adobe, mentre si sta aprendo anche il discorso dei live via social media che, già ora, possono essere realizzati da un solo giornalista con l’aiuto di un iPad e un paio di iPhone per dare segnali trasmittibili anche da un broadcaster. I video sono più vicini, hanno inquadrature, angolature insolite, i telefoni intimidiscono meno gli intervistati.
Le possibilità di fare dirette social sono anche quelle senza limiti e sostenute da suite di streaming che per una manciata di dollari al mese portano una regia portatile nel nostro tablet. Ci possiamo proporre sul mercato con tutte queste possibilità, quindi spero che, alla fine di questa lettura, mi consideriate meno matto. Opportunità ce ne sono, basta trovarle oltre la paura di cambiare e la paura di rischiare.
Ultima nota: il mobile journalism sta diventando vecchio per lasciare posto al wearable journalism. La scorsa settimana Snapchat ha presentato gli Spectacles 3, occhiali con telecamera in grado di realizzare video full hd con le 2 telecamere montate e i quattro microfoni. Apparecchio eccezionale per andare ancora di più al centro delle storie con strumentazione leggera e con la testa concentrata alla qualità di quello che stiamo realizzando dal punto di vista giornalistico. Se prenderete questa strada troverete queste opportunità da sfruttare sul mercato.
Proprio sicuri che il giornalismo sia in una crisi senza uscita? Io non tanto.
Il sito dell’autore: francescofacchini.it