di MICHELE MEZZA
Il numero de L’Espresso in edicola il 20 marzo senza firme, per il suo tormentato passaggio di proprietà ancora in corso, con scosse di assestamento che si prolungano in attesa di capire cosa il nuovo proprietario voglia fare della prestigiosa testata, ci segnala, forse involontariamente, una formula che potrebbe essere utile nell’evoluzione del giornalismo.
La protesta della redazione, che si manifesta appunto con il ritiro delle firme, è una delle forme più tradizionali della contesa con gli editori. Rendendo anonimi i contenuti si intende impoverire il prodotto, e separare, per quanto possibile, la responsabilità dei giornalisti da quelle della direzione e della proprietà.
artigiano elitario
È l’eredità di un giornalismo, appunto, delle firme. In cui il protagonista è proprio l’autore finale dell’articolo che va in pagina, l’artigiano elitario che illumina il suo lettore con testimonianze e opinioni con l’aura dell’esperto, dello specialista. È il giornalismo di tutto il secolo scorso, cadenzato e simboleggiato dai grandi nomi: Barzini, Scarfoglio, Ojetti, Monelli, Montanelli, Biagi, Ottone, Ronchey, Scalfari, Feltri.
Mentre oggi, lo stiamo vedendo in quel terribile laboratorio delle cronache della guerra in Ucraina, l’informazione è sempre più il risultato di una composizione intelligente e veloce che lavora sull’abbondanza e non più sulla penuria delle fonti. La rete, nei suoi ormai 50 anni di esperienze e di evoluzione antropologica, ci ha insegnato che ogni contenuto è sempre una tappa di un lungo cammino, uno step di un’evoluzione, un momentaneo passaggio di una infinita conversazione.
prodotto che evolve
La firma è il simbolo di una pagina chiusa che oggi non esiste più: ogni articolo, ogni opinione, ogni documentazione è l’avvio di un processo di ruminazione condivisa di un prodotto che evolve continuamente. Un’evoluzione in cui conta sempre più la cornice tecnologica e la combinazione di intelligenze e memorie in grado di raccogliere ed elaborare dati e file. In realtà, un ritorno proprio alle origini della stampa in cui, siamo a cavallo fra il XVI° e il XVII° secolo, gli stampatori erano i veri protagonisti che abilitavano editori e autori a parlare con larghe platee.
La potenza di una testata, di un sito, di un blog, sta proprio nella capacità di “vendere” un’attività collettiva, dove la convergenza di saperi, competenze e abilità determina l’autonomia e, dunque, il pregio di quel contenuto nell’ebollizione globale di notizie. Si compra il marchio e non l’azione, si impone la capacità di connettere tecnologie, linguaggi e curiosità, rispetto ad un passato in cui il giornale era il collante di individualità, di professionalità solitarie che convergevano in una strategia, ma che in proprio erano i garanti del valore dell’informazione che producevano.
il brusio di parigi
Un giornalismo, quello che nella sua secolare trasformazione proveniva proprio dai salotti dell’800 descritti in un memorabile libretto, che andrebbe mandato a memoria nelle scuole del mestiere e nelle redazioni, di Honorè de Balzac, intitolato “Monographiè de la presse parisienne”, nella versione italiana, edita da Abramo, “I Giornalisti”.
Un salace pamphlet del 1843 in cui il già popolarissimo autore de la “Comèdie humain”, a ridosso dell’esplosione, nella Francia borghese di Luigi Filippo, dei giornali come catalizzatore di quel brusio sociale che caratterizzava Parigi in particolare, dove era partita la corsa all’arricchimento di un ceto appena urbanizzato in cerca di visibilità, sferza quella categoria di avventurosi arrampicatori sociali che usavano la nuova tecnica del giornalismo come scorciatoia per la propria affermazione.
In quel testo Balzac, con un tono e una precisione di una stupefacente attualità, analizza i diversi caratteri della struttura redazionale, descrivendo gli identikit delle figure centrali nelle redazioni. Individua in due ruoli, il pubblicista e il critico, le matrici di tutte le ulteriori declinazioni del giornalista.
il critico e il pubblicista
Il pubblicista è il capostipite dei collaboratori della testata, di tutte quelle figure di scrittura che danno forma alla politica editoriale. Questa funzione si evolve poi, scrive il grande romanziere, in altre attività connesse o integrate nel giornalismo, come uomo di stato, panflettista, nientologo, pubblicista con il portafoglio, scrittore monobiblico o traduttore o, ancora, autore con le certezze. Ognuna di queste sotto-tipologie vengono a loro volta descritte con straordinaria verve e non senza una ferocia satirica, che ci dice anche quanto il mestiere, già agli albori, avesse logorato la pripria immagine.
Il critico, che si avvicina di più al redattore interno che scrive e compone materialmente le pagine, è considerato da Balzac “un autore impotente”. Affiora, in questo giudizio sprezzante, quella forma di suscettibilità e difesa corporativa che ritroviamo anche in altri grandi scrittori del tempo, come Victor Hugò, nei confronti del nuovo mondo della narrazione popolare, che insidiava il monopolio degli autori di grido. Il filo rosso che lega tutta la disamina che Balzac fa sulle diverse categorie di giornalisti e sulle deformazioni a cui il mestiere si presta, se esercitato con poca responsabilità e moralità, sta nella visibilità e centralità che attiene alla firma del giornalista nel prodotto giornale.
moderni moschettieri
Questa dell’individualità dell’autore di una produzione giornalistica, per sua natura sempre e comunque prodotto collettivo che vive di contesti più che di testi, è la fondamentale eredità che ci portiamo dietro dagli ultimi due secoli di pubblicistica.
Per tutto il ‘900 il giornalismo è stato storia di giornalisti, coerentemente con la mutazione di una produzione industriale – la tipografia è stata la prima fabbrica dove si è diviso il lavoro per funzioni e abilità, prefigurando poi quella che sarebbe diventata la fabbrica fordista – in un’attività intellettuale. Siamo nell’epoca d’oro, a cavallo delle due guerre, in cui i giornalisti diventano i moderni moschettieri alla corte del Re Sole, protagonisti indiscussi della vita culturale e politica. Il giornale è innanzitutto le sue firme.
uno strano soldato
Con il dopo guerra, accanto agli scrittori, cominciano ad emergere i grandi fabbricatori di giornali, i “culi di pietra”, che costruiscono la redazione prima e le pagine dopo, giorno per giorno. Più che i direttori diventano vincenti i capo redattori centrali, i veri geometri del cantiere redazionale. Faccio due nomi su tutti, volutamente fra i meno popolari, che però diedero forma e appeal alle proprie testate come Angelo Rozzoni al Giorno di Gaetano Baldacci e Michele Melillo al Manifesto di Luigi Pintor: due capo scuola. Insieme a questi straordinari cesellatori dell’impaginazione, arrivano poi i grandi designer che ridanno immagine e identità ad una testata con squadra e compasso, e poi emergono le figure della distribuzione e del marketing pubblicitario, che sempre di più si fanno vedere nella stanza del direttore. I nomi di chi sta dietro le quinte cominciano ad entrare nell’immaginario degli addetti ai lavori. Poi negli anni ‘70 irrompono i collaboratori e gli esperti: le firme dei grandi inviati o elzeviristi cominciano a condividere la luce della prima pagina con economisti, scienziati, letterati, sociologi. Alla fine degli anni ‘70, con il salto dal “freddo” al “caldo”, dalla linotype alla fotocomposizione, s’avanza uno strano soldato, è il caso di dire: entra in redazione il computer e con esso i primi informatici, in camice bianco, cominciano ad aggirarsi in tipografia, che a sua volta inizia a ridimensionarsi.
aperte le gabbie
Da allora fino ad oggi la corsa diventa frenetica: teletrasmissione, composizione digitale, le agenzie che diventano file, i computer sparsi in tutta la redazione e poi, con i telefonini, siamo a dopo il 1990, il filo che collega giornalisti alla redazione si allunga all’infinito, di fatto inizia lo smart working a nostra insaputa.
Qui si crea una vera cesura: i contenuti diventano alluvionali, travolgendo ogni economia di scala di un giornalismo che aveva tarato le sua organizzazione e le sue competenze su un’economia delle penuria: poche notizie, riservate, e introvabili. Ora ci troviamo con notizie abbondanti, condivise e pubbliche.
A Ginevra Tim Berner-Lee aveva inventato il web, cosa che non meritò nemmeno un trafiletto sulle pagine dei quotidiani dell’epoca, aprendo le gabbie della comunicazione. Come aveva già preconizzato Walter Benjamin: ogni lettore si siederà accanto al direttore nei giornali.
camici bianchi
Era la conseguenza, e non la causa, di un processo di individualizzazione dei comportamenti sociali. Le comunità cominciarono a scomporsi con la crisi del lavoro di massa e dei consumi collettivi, che comportarono l’inizio della parabola discendente dei mass-media. Subito in poco tempo dalla rete affiorano quantità industriali di contenuti: prima banale cicaleccio, poi, via via sempre più conversazioni e testimonianze di eventi, con testi e i primi filmatini. Sul passaggio del millennio esplodono i nastri all news delle Tv. Una produzione prima proibitiva, riservata ai grandi imperi angloamericani, oggi accessibile proprio per la disponibilità di contenuti e comunicazioni a basso costo. I tecnici cominciano a diventare veri e propri architetti delle infrastrutture giornalistiche. Si tolgono i camici bianchi e si siedono in redazione.
Quello che succede ce lo racconta nel suo libro, che abbiamo già ossessivamente citato in altri interventi, Jill Abramson – “Mercanti di Verità”, Sellerio – che ricostruisce la storia degli ultimi 20 anni delle grandi testate oltre atlantico.
grammatica professionale
In questa “mediamorfosi” appaiono figure e esperti del tutto eccentrici: registi cinematografici, arrangiatori musicali, video maker, esperti di intelligenza artificiale, tecnici del cloud, softweristi, linguisti, archivisti, analisti dei dati, statistici, matematici. Sono figure che convergono nelle nuove redazioni digitali e cominciano a modificare radicalmente la grammatica professionale.
Lo vediamo proprio in questi giorni con i reportage dall’Ucraina: sia tv che testate cartacee offrono ormai un tappeto di video documenti, realizzati, in parte, ma soprattutto raccolti e selezionati in rete, da inviati sul posto e redattori esperti. È questa sintassi visiva che ci dà, nel corso della giornata, l’elettrocardiogramma emotivo e politico della situazione. Per realizzare questi mosaici giornalistici è indispensabile il concorso di una moltitudine di capacità e di relazioni, combinate con le esperienze e la sensibilità di collaboratori locali.
estreme e radicali
Decisivo in questo nuovo scenario è l’emancipazione della testata dalle tecnologie dominanti, che omologano e uniformano i contenuti. Proprio nella quarta di copertina del numero de L’Espresso in edicola di cui stiamo discutendo, compare una pubblicità a colori di Google che promuove le sue pagine di news, spiegando che usandole avremmo una visione completa e pluralista degli eventi, grazie alla presenza di materiali provenienti da molti editori. In realtà Google, lo documenta dettagliatamente Jill Abramson, proprio per il suo modello di fruizione e le modalità di selezione dei contenuti, basate anche sulle aspettative di traffico pubblicitario, tende a privilegiare le notizie più estreme e radicali, distorcendo il quadro visuale.
Mentre un giornale deve avere proprio su questi aspetti, l’abilità autonoma e concorrenziale a scandagliare la rete, a leggere in automatico centinaia di fonti, a estrarre contenuti e documenti, il suo valore aggiunto. In questa attività muta inevitabilmente l’organizzazione e la gerarchia redazionale, e proprio il marchio diventa il vero garante, più della singola firma, della qualità del contenuto.
agganciare l’utente
Proporre una testata che si qualifica per la potenza editoriale e tecnologica di destreggiarsi nel flusso alluvionale di contenuto, assicurando aggiornamento, critica e approfondimento, è oggi il presupposto per il rilancio, come è avvenuto sul mercato americano, del valore dei giornali sul nuovo scenario multimediale. Inoltre, e questo è il secondo aspetto che ci porta a considerare le modalità di valorizzazione del prodotto giornalistico, ormai ogni notizia non va più pubblicata, ma – come ancora la Abramson ci dimostra – va abbinata, lei usa il verbo “to match”, ad ogni singolo lettore, in modo da agganciare l’utente mediante i suoi propri interessi e angolazioni, all’offerta dei servizi della redazione.
Anche in questo caso diventa essenziale arricchire la struttura di produzione con il concorso di altre figure professionali che assicurano ai giornalisti dell’ultimo miglio, diciamo così, la capacita di percepire i comportamenti e le predisposizioni dei lettori, arrivando a lavorare direttamente per ognuno di loro.
padroneggiare tecnologie
In questa logica, più che appiattire tutta la produzione di una testata o di un’emittente in una generica anonimia, si deve cominciare a pensare a modalità nuove, più aderenti alle necessità organizzative, per identificare i servizi e gli articoli, ricorrendo a marchi collettivi, a teams di lavoro che firmano come strutture produttive cooperative, come forme di garanzia sul proprio stile di lavoro. In qualche modo come accade già nelle reti tv, in cui il marchio della singola trasmissione ci dà con chiarezza la consapevolezza di quale sia il taglio professionale, l’approccio alle notizie, la capacità di padroneggiare tecnologie e risorse intelligenti.
Per salvaguardare il valore del messaggio, per tornare al maestro Mc Luhan, dovremmo sacrificare l’ambizione del messaggero.