di MICHELE MEZZA
La circolare con cui il direttore del New York Times Dean Baquet ha stigmatizzato l’uso di Twitter da parte dei suoi giornalisti pone un tema che va al di là della semplice sollecitazione a stare di più sulla notizia, come rischia di essere ridotto.
Baquet è direttore del più famoso quotidiano del mondo da 8 anni, e prima era il vice direttore esecutivo di Jill Abramson, la prima donna a guidare il giornale e autrice del libro “Mercanti di verità” ( Sellerio editore), che ricostruisce l’evoluzione del sistema informativo americano negli ultimi 20 anni. Come è stato ricordato proprio su questo spazio, i due hanno varato il piano di traghettamento della redazione sui social nel 2014.
Parliamo di uno dei più esperti e prestigiosi giornalisti del pianeta, che improvvisamente scopre come i suoi redattori in realtà siano condivisi con un altro editore surrettizio, appunto la piattaforma dell’uccellino. In realtà Baquet aveva sempre saputo che sui social i giornalisti inevitabilmente assumono una fisionomia diversa dal professionista che serve, finchè è alle sue dipendenze, solo la sua testata.
contatto con il lettore
I social deformano la fisionomia e l’identità socio professionale del giornalista, mettendolo a stretto contatto con l’’utente finale del suo lavoro: il lettore. Una figura di lettore che diventa utente, partner, e anche socio del giornalista. Fra i due soggetti si instaura una relazione di mutua assistenza: l’utente comincia ad usare il giornalista, a strizzarlo per ricavarne pareri ed opinioni da “vendersi” nel suo ristretto cerchio familiare o dei colleghi, per accrescere la propria reputazione. Il giornalista incrementa il suo seguito, acquistando massa critica anche dal punto di vista commerciale, con l’allungarsi della lista dei followers, oltre ad avere a disposizione potenziali informatori, pronti ad arricchire la gamma delle fonti riservate su cui può contare il redattore.
In questa relazione si attenua la dipendenza esclusiva dalla testata e il giornalista comincia ad intravvedere orizzonti diversi, che a volte lo portano a mettersi in proprio.
Proprio questa opzione rende Twitter una piattaforma più predisposta al mercato dell’informazione, perché più coerente e funzionale per quest’attività di agenzia permanente che ognuno di noi si trova ad esercitare. Più chi scrive è un professionista dell’informazione e più ritmo, tempestività, e profilazione delle notizie rispetto agli utenti si affinano, e diventano una vera relazione commerciale.
ingegneri e redattori
E’ qui che si concentra, a mio parere, la diffida di Baquet ai suoi redattori. La sua nota deve essere intesa come un avviso ai naviganti: non pensiate di usare la testata come una scorciatoia per soluzioni individuali. Perché esattamente questo sta accadendo, come descrive dettagliatamente Jill Abramson nel suo libro. Prima i grandi collaboratori, poi gli inviati, infine i capo desk, ed ora una combinazione di ingegneri e redattori, si sono messi in proprio creando una gamma di servizi, dai new blog a pagamento, alle news letters, specializzate, ai dossier on demand, alle consulenze per eventi o forum.
La chiave di questa diversificazione dei servizi redazionali, che scavalca le redazioni, è un verbo che proprio la Abramson mette al centro del suo testo: to match, abbinare. Ogni giornalista nella digitalizzazione della macchina informativa, spiega l’ex direttrice del new York Times, si trova non più a pubblicare o a diffondere, ma ad abbinare ogni notizia ad ogni singolo lettore. Tanti più sono i lettori, tanto più le notizie devo essere diversificate e personalizzate.
clienti e fonti
Questa forma di adattamento della produzione giornalistica -l’abbinamento di ogni notizia ad ogni singolo profilo di lettore- è l’unica modalità che permette di ottimizzare la platea di utenti di una testata on line, i famosi utenti unici mese, nell’ordine delle centinaia di milioni per le testate americane, delle decine per le principali testate italiane, rendendola economicamente profittevole. Per fare questo la testata deve diventare un centro servizi che riesce a trasformare l’abilità e la competenza della sua redazione in una pluralità di attività e prestazioni, che convincano gli utenti a pagare. Si consuma qui uno scontro di visione e di prospettiva che è stato anticipato in un famoso dialogo fra Jeff Bezos, il patron di Amazon che ha comprato il Washington Post, e Bob Woodward, uno dei protagonisti del caso Watergate, firma ancora prestigiosa del quotidiano della capitale americana. Il glorioso giornalista al momento in cui il suo giornale passò di mano mandò una lettera al nuovo proprietario con raccomandazioni di vario tipo. Fra queste gli ricordò che “per noi giornalisti i clienti iniziali sono le nostre fonti”. Intendeva dire che è la credibilità e il prestigio del cronista a spingere un testimone a confidarsi, dunque è quello il patrimonio aziendale da preservare. Esattamente l’opposto di quell’andazzo che porta invece gli editori a puntare su soluzioni tecnologiche come Chartbeat il software che profila ogni singolo utente personalizzando automaticamente l’offerta di notizie che anche il Washington Post ha acquistato.
Ora quest’opportunità di individualizzare moltitudini estese di utenti porta ogni singolo redattore a diventare esso stesso brand, marchio, in grado di sviluppare un marketing editoriale. E contro questo rischio che il direttore del quotidiano della grande mela ha tuonato, precisando comunque che “senza social sarebbe impossibile seguire oggi la guerra”. Il gioco, insomma dovrebbe essere condotto con una massima attività nell’ascolto della rete, riducendo ogni anticipazione di notizie o esibizioni di informazione al minimo possibile, per non impoverire le pagine digitali del giornale. Un modo per rifarsi a un vecchio detto arabo che dice: non a caso Allah ci ha dato due orecchie e una sola bozza. Ma i giornalisti sempre meno sembrano dare retta ad Allah.