(A.G.) Il caso Monte Paschi. 

Il caso Fontana.

Uno dietro l’altro in pochi giorni. Casi che parlano al sistema dei media. Perché a tutti e due  in Italia sono state dedicate pagine e pagine, video e servizi alle tesi dell’accusa, sono state pubblicate intercettazioni, circostanze, comportamenti configurabili come reati. Pagine e pagine, video e servizi che equivalevano, nel subconscio dell’opinione pubblica, a condanne, a reputazioni sporcate. 

Poi, le assoluzioni. E le notizie sulle assoluzioni che non hanno nulla a che vedere -come spazio, come toni- con il sostegno dato all’impianto accusatorio.

prestito ibrido

Il caso Monte Paschi, 6 maggio. Era un processo d’appello, a Milano. La Corte ha assolto l’ex presidente della banca senese, Giuseppe Mussari, l’ex direttore generale Antonio Vigni e gli altri ex vertici imputati per irregolarità nelle operazioni finanziarie (i derivati “Alexandria” e “Santorini”, il prestito ibrido “Fresh” e la cartolarizzazione immobiliare “Chianti Classico”) realizzate tra il 2008 e il 2021 dall’istituto di credito allo scopo – secondo l’ipotesi accusatoria – di coprire le perdite legate all’acquisizione di Banca Antonveneta. La Corte d’Appello ha assolto da alcuni capi d’imputazione anche le banche Deutsche Bank AG, la sua filiale londinese e Nomura “perché il fatto non sussiste”, dichiarando anche il “non doversi procedere” per altri reati caduti in prescrizione.

I giudici hanno annullato la sentenza del primo grado di giudizio che nel novembre 2019 aveva portato alla condanna di tutti i principali imputati: 7 anni e 6 mesi di carcere per Mussari, 7 anni e 3 mesi per l’ex direttore generale Antonio Vigni e 4 anni e 8 mesi per l’ex responsabile dell’area finanza Gianluca Baldassari. Spazzate via anche le multe (64 milioni a Deutsche Bank e 88 milioni a Nomura) stabilite nel primo grado di giudizio.

camici donati

Il caso Fontana, 13 maggio. Il presidente della Lombardia Attilio Fontana è stato prosciolto “perché il fatto non sussiste”, con altre 4 persone, dall’accusa di frode per il caso dell’affidamento, nell’aprile 2020, da parte della Regione, di una fornitura, poi trasformata in donazione, da circa mezzo milione di euro di 75 mila camici e altri dispositivi di protezione individuale a Dama, società del cognato Andrea Dini. Lo ha deciso il giudice per l’udienza preliminare di Milano Chiara Valori. Il giudice, prosciogliendo tutti e 5 gli imputati con il “non luogo a procedere”, ha deciso che non è necessario un processo nemmeno per lo stesso Dini, per Filippo Bongiovanni e Carmen Schweigl, rispettivamente ex dg e dirigente di Aria, centrale acquisti regionale. Stessa decisione per Pier Attilio Superti, vicesegretario generale della Regione. Secondo l’accusa, rappresentata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dai pm Paolo Filippini e Carlo Scalas, in base al contratto del 16 aprile 2020 Dama, che detiene il marchio Paul&Shark, avrebbe dovuto fornire 75mila camici e altri 7mila set di dpi per un importo di 513mila euro.

presunzione d’innocenza

Due casi speculari, perché nel primo s’erano particolarmente accaniti i giornali della destra, nel secondo i giornali vicini alla sinistra. Ma il risultato è lo stesso e la distorsione anche. Un’inchiesta giudiziaria è composta di due parti, l’accusa e la difesa. In Italia i giornalisti giudiziari sono spesso molto vicini alle Procure perché -specie quando i nomi sotto accusa sono importanti- da quella parte escono notizie clamorose. Ma un ordinanza di custodia cautelare non è una sentenza e non andrebbe come tale spalmata su pagine e pagine, video e servizi, per giorni e giorni. 

E’ un rapporto malato quello fra giornalisti e Procure, che queste due sentenze (e altre prima di queste) dovrebbero costringere a ripensare. Recentemente il governo Draghi ha varato un decreto sulla “presunzione d’innocenza” che introduce regole ferree sulla trasmissione delle notizie dalle Procure ai giornalisti. Come se i giornalisti fossero unici responsabili degli scempi accaduti nei decenni. In realtà il rapporto privilegiato dei media con le Procure è frutto anche di un’altra anomalia: il protagonismo dei giudici. Che talvolta ha forzato la loro mano: le inchieste con nomi celebri hanno più possibilità di essere lanciate dai media e quindi rischiano di passare avanti alle altre. 

Davanti al decreto “presunzione d’innocenza” i giornalisti hanno gridato, hanno parlato di “legge bavaglio”. Giustamente quando si dice che i Palazzi di giustizia non devono essere luoghi di segreti. Ma vista dalla parte della stampa, la chiave di tutto è in una parola: compostezza. Soprattutto quando si parla della dignità e della rispettabilità delle persone, il giornalista (i direttori) non possono pensare soltanto alle copie da vendere, al rumore che si fa. Se c’è un’inchiesta si deve darne conto (senza censure delle Procure). Tenendo conto però che è l’accusa che sta facendo la sua parte, che anche la difesa va sempre ascoltata, che il tribunale dirà la parola definitiva (con tre possibile sentenze). E non si devono enfatizzare le inchieste in base alle propensioni (politiche) dei diversi organi di informazione. 

Insomma, il giornalismo giudiziario è da rifondare. Ne guadagnerà la civiltà.

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