di ELETTRA BERNACCHINI

Lo scoppio del conflitto in Ucraina a seguito dell’invasione da parte delle forze armate russe ha rappresentato l’occasione per fare un punto sul modo di raccontare una guerra da parte del giornalismo italiano. Un elemento in risalto, su tutti, è stato lo sfruttamento dell’immagine di bambini e bambine senza particolare riguardo per l’etica giornalistica che dovrebbe tutelarli in quanto soggetti deboli, o le possibili conseguenze a livello di percezione del pubblico.
Il racconto della fuga dei profughi ucraini, spesso appunto donne e minori, e delle tragiche vicende personali di queste vittime innocenti della guerra hanno riempito le pagine dei quotidiani e i palinsesti dei telegiornali: invece di optare per una narrativa analitica, super partes per quanto possibile, i media italiani hanno fatto un massiccio ricorso al linguaggio emozionale che, anche se è sicuramente servito a tenere alta l’attenzione del pubblico, ha posto una serie di problemi dal punto di vista della correttezza informativa.
Un esempio emblematico, in questo senso, è stata la vicenda della bambina con lecca-lecca e fucile. Attorno ai primi del mese di marzo 2022, a più di due settimane dall’inizio del conflitto, sui social network era iniziata a girare una foto che ritraeva una ragazzina ucraina di 9 anni, seduta sul davanzale di una finestra, con in bocca un lecca-lecca, in braccio un fucile e lo sguardo sicuro puntato verso un orizzonte fuori dall’obiettivo della camera.

situazione non reale

Questa immagine, potente e tragica allo stesso tempo, era stata ripresa da moltissime testate giornalistiche, senza che il volto della bambina venisse camuffato in alcun modo, finendo anche sulla prima pagina del quotidiano La Stampa con il titolo: “La Resistenza di Kiev”. Il dibattito sviluppatosi attorno alla scelta dei giornali di pubblicare e diffondere ulteriormente la foto ha evidenziato due punti critici: il primo legato alle fonti e al fact-checking giornalistico, il secondo in riferimento al modo specifico di trattare l’immagine dei minori in una condizione eccezionale come quella della guerra. Rispetto alla prima questione, si è scoperto che la situazione ritratta nello scatto non era reale, ma una posa costruita da un fotografo amatoriale ucraino, Oleksii Kyrychenko, che aveva usato sua figlia come soggetto. Lo stesso Kyrychenko aveva successivamente spiegato la situazione in un post di Facebook, dichiarando: “Il fucile è mio, mia figlia non sa sparare: ha nove anni. E ovviamente il fucile non era carico mentre le scattavo le foto”. Sotto questo profilo, il problema è stata la superficialità con cui le testate hanno ripreso un contenuto da Internet senza verificare la veridicità dello stesso: un’immagine costruita è stata fatta passare come lo scatto dal campo di un fotoreporter, e quindi come verità storica.

patina fuorviante

Se non fosse stato fatto un lavoro di fact-checking, anche se tardivo, i lettori italiani avrebbero creduto che a una bambina di 9 anni ucraina era stato dato in mano un fucile per combattere contro l’esercito russo, come fosse una soldatessa. Su questo punto si è innestato il tema dei minori. Il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, accortosi dell’errore grossolano, è intervenuto in prima persona attraverso un editoriale di pubblica ammenda. “Mi scuso – si legge su Avvenire del 13 marzo 2022 – con ogni bambina e ogni bambino usati e abusati nella logica della guerra, addirittura dal proprio papà e persino con le migliori intenzioni. Quella fotografia di bimba dice ed evoca tutto questo male, e gli dà patina fuorviante e illusoria. Nessuna creatura lo merita. Queste pagine di Avvenire continueranno a dirlo con dolore, indignazione e tutta la chiarezza necessaria”. 

Da un punto di vista strettamente deontologico, la Carta di Treviso – il documento, approvato per la prima volta nel 1990 e successivamente aggiornato, dove sono esplicitate le regole da seguire in materia di tutela dei minori da parte di giornali e giornalisti – non tratta esplicitamente la questione della guerra, però è possibile prendere in considerazione quanto esplicitato all’articolo 6: “E’ consentita la pubblicazione dell’immagine del minorenne quando rivesta un rilevante valore simbolico e sia volta a far rendere consapevolezza di fenomeni socialmente significativi, sempre che non sia leso in concreto il suo interesse a un equilibrato sviluppo psicofisico e non vi siano ricadute sul suo contesto di vita”. Secondo questo principio, quindi, non ci sarebbero dovuti essere dubbi: l’immagine della bambina con il lecca-lecca ha un “rilevante valore simbolico” e sarebbe potuta essere pubblicata, magari con il giusto riferimento alla fonte.

bombardamento russo

Perché, allora, il direttore di un importante quotidiano ha sentito il bisogno di scusarsi con i suoi lettori? Per rispondere a questa domanda bisogna guardare al caso generale, e non limitarsi al particolare. Giulia Aubry, in un articolo del 28 febbraio su Professione Reporter, scriveva a proposito di un altro episodio riguardante un minore pediatrico, Okhmadyt, a Kiev. Nel primo racconto sui media nazionali e internazionali, il piccolo sarebbe rimasto ucciso a seguito del bombardamento dell’ospedale da parte delle forze russe. La Onlus Soleterre, che ha propri operatori sanitari in loco ha dovuto smentire e precisare la notizia, pubblicando sul proprio profilo Facebook che il bambino sarebbe rimasto ucciso sulla strada, a causa dei combattimenti in corso, e morto in ospedale per emorragia mentre i medici cercavano di salvarlo. La notizia non è meno grave, ma la sua valenza e il suo utilizzo sono diversi e la “scoperta” dell’imprecisione avvalora coloro che generalizzano, dicendo che ‘se una sola cosa è falsa, tutto è falso’”. Il problema, quindi, non sta tanto nella singola foto, quanto nel fatto che ormai la narrazione giornalistica è talmente piena di immagini tragiche con bambini come protagonisti da annullare completamente la percezione dell’eccezionalità della situazione.

regole nuove

Dal punto di vista del racconto bellico, la logica dell’impatto emotivo ha prevalso su un’etica professionale basata sulla correttezza, complice anche la sovrabbondanza informativa (quasi mai filtrata) tipica dell’era dei social network. Una notizia, per essere ricordata oggi, deve essere particolarmente grave, così come una foto di guerra deve essere particolarmente forte agli occhi di chi guarda: bambini e bambine, in questo senso, sono da sempre i soggetti migliori per fare colpo, e la narrazione del conflitto russo-ucraino ha confermato questo principio non scritto, addirittura portandolo a un livello di ripetitività ancora superiore.

Laddove le regole deontologiche esistenti non arrivano, bisognerebbe forse formularne delle nuove, specifiche in questo caso per quanto riguarda il racconto delle guerre. È un’impresa difficile, se non impossibile: il valore di una notizia, così come l’impatto di un’immagine molto significativa, prevarrà sempre su un’eventuale remora etica. L’unica soluzione, forse, sarebbe quella di cercare un nuovo focus del racconto, non limitarsi più solo alle storie sulla fuga dei profughi, i bombardamenti sulle città e la vita dei civili nei bunker, ma tentare di accompagnare il lettore, o lo spettatore, verso una comprensione più complessa e profonda del conflitto e delle posizioni delle parti in causa.

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