di ALBERTO FERRIGOLO
Quanti seguono con affezione Otto e mezzo, il programma condotto da Lilli Gruber su La7, hanno di sicuro come punto fermo e àncora di riferimento la quotidiana rubrica che Paolo Pagliaro tiene negli ultimi minuti della trasmissione. Un minuto e quarantaquattro secondi, due al massimo e non oltre, che hanno lo stesso valore di un servizio, un’inchiesta, un editoriale. Non più di una cartella, 1.800 battute. Così dal 2008, tutti i giorni, dal lunedì al sabato fino all’anno scorso, dal lunedì al venerdì oggi, dopo che il sabato sono subentrati a occupare la scena tv della rete Concita De Gregorio e David Parenzo. Un lavoro giornalistico puntuale, che è al tempo stesso uno stile, un linguaggio preciso, una cadenza narrativa, un logo: “Il Punto di Paolo Pagliaro”.
dati in bianco e nero
Si tratta di una sistematizzazione di dati in bianco e nero, trattati in controluce, che servono per mettere in evidenza le contraddizioni del presente in una narrazione della politica, dell’economia e della società con i suoi usi, costumi, tendenze e vizi. Rubrica che è un diario di annotazioni per paradossi, sulla base di ciò che ci offre la cronaca quotidiana, italiana ed estera, macro e micro, che oggi ritroviamo assemblata e selezionata in un volumetto per i tipi del Mulino, dal titolo “Cinque domande sull’Italia. I dilemmi di un Paese inquieto”. E che sono rivelatori di un metodo di lavoro che prende le mosse da una convinzione: “Che uno dei difetti principali del giornalismo italiano” sia “il politicismo”, ossia “la pretesa di leggere la realtà con gli occhiali della politica”, mentre c’è dell’altro o “tutto il resto”, come “l’economia reale, il lavoro, i giovani e le loro culture, gli effetti della rivoluzione tecnologica, i nuovi linguaggi, i consumi, il mondo fuori dai nostri confini”.
Si tratta di temi e argomenti che guidano la quotidiana indagine dentro un mondo per altro fatto di notizie “viste, lette o sentite in tv, dove dalle 7 del mattino si commenta, si discute e si litiga su ciò che si è letto sui giornali” e poi “il cerchio si chiude quando i giornali riportano con enfasi ciò che si legge sui social”.
fretta e pigrizia
Ciò che fa scrivere a Pagliaro: “È una questione su cui dovrebbe riflettere chi fa il giornalista, cioè chi seleziona i fatti che dovrebbero diventare notizie. È cresciuta una generazione di giornalisti indotta a pensare che i social siano lo specchio degli umori correnti, fonte di informazione attendibile. È un equivoco alimentato dalla pigrizia, dallo spirito del tempo, forse anche dalla superficialità e dalla fretta. Tutto ciò che accade in rete sembra ai media straordinariamente importante, anche quando ha un’audience modesta o addirittura irrilevante”. Un’accusa soprattutto a Facebook, “nell’epoca in cui sembrano fare notizia solo la rabbia sociale” e la sua “solitudine spesso rancorosa”, mentre “in rete non sempre trionfa la libera circolazione delle idee e delle notizie, ma semmai la loro manipolazione; non la democrazia dell’informazione, ma la dittatura della comunicazione”, perché, semmai, “l’informazione ha come obiettivo la conoscenza, la comunicazione ha come obiettivo la persuasione” e “sono missioni diverse”, ma “oggi abbiamo un eccesso di comunicazione e una carenza di informazione (…) si sono moltiplicati gli uffici stampa, mentre sono diminuiti gli uffici studi” e anche questo, annota il giornalista, “è un aspetto del conflitto in corso”.
populismo e popolazione
Gli interrogativi intorno a cui si snoda il pamphlet sono rivelatori delle contraddizioni presenti, su cui si muove e agisce anche il mondo dei media. Insomma, “siamo ricchi o poveri?”, “manca il lavoro o mancano i lavoratori?, “siamo troppi o troppo pochi?”, a proposito dell’affollamento planetario e del ruolo e della funzione degli immigrati nella nostra società; e “chi inquina di più”, mentre su tutte grava la domanda delle domande: “Vita vera o Second life”, a proposito delle suggestioni digitali e all’ultima trovata di Mark Zuckerberg, che ci vuole tutti proiettati nel Metaverso, mondo che è un’evoluzione virtuale di Facebook, tra fuga e rifugio.
“Il punto di Paolo Pagliaro” oltre che per la brevità, si caratterizza per l’asciuttezza del linguaggio, per la dovizia di dati, per il contrasto delle posizioni e dei concetti riportati e anche per la chiosa finale. Non mancano poi le sottolineature polemiche dell’autore al mainstream mediatico e alle frequenti carenze dei giornali, che si materializzano in espressioni tipo: “I giornali non ne parlano”, oppure con annotazioni come: “Un fenomeno che si guadagna spazi esigui sui giornali, che si occupano molto di populismo e poco di popolazione”.