di ALBERTO FERRIGOLO
Classe 1973, Francesco Semprini il 30 giugno compie 49 anni. Corrispondente di guerra per La Stampa, inviato per lunghe settimane in Donbass, ci ha raccontato quasi quotidianamente questi quattro mesi di conflitto russo-ucraino.
Vive negli Stati Uniti da 21 anni, arrivato per studiare l’inglese, dopo essersi laureato in Economia e Commercio a Roma e dopo il servizio militare. Si definisce giornalista per caso, “ci sono inciampato”. Uno stage alla redazione del Sole 24 Ore, a cercare dati per i corrispondenti, passo dopo passo fino a diventare coordinatore all’agenzia del Sole e poi vice corrispondente della Stampa, con Maurizio Molinari.,
Cominciamo con lui una serie di racconti sul giornalismo di guerra, oggi.
Da New York al Donbass è un bel salto. Come diventi corrispondente di guerra?
“Quando sono entrato a La Stampa ho cominciato ad occuparmi non più solo di economia come al Sole, perché con Molinari dovevamo seguire un po’ di tutto. Vengo da una famiglia di militari, ho sempre sentito parlare di storia e politica, specie internazionale, avevo sensibilità e predisposizione. Mi sono appassionato, c’era la guerra in Irak, in Afghanistan, e un giorno decido di andare a Guantanamo. Tra le promesse di Barak Obama in campagna elettorale c’era quella di chiudere subito la prigione. Quando viene eletto scatta la corsa di tutti i giornalisti per fare l’ultimo reportage prima della chiusura. Mi imbarco anch’io, trascorro diversi giorni a Guantanamo. È stata una full immersion e lì m’è scattato qualcosa dentro”.
Spirito di missione?
“Mi sono solo chiesto: cosa spinge una persona a rischiare d’esser rinchiuso per tutta la vita in un carcere a migliaia e migliaia di chilometri da casa? Una persona, un esperto, mi disse: posso spiegartelo per filo e per segno, ma per capirlo davvero devi andare là da dove vengono, devi capire perché certa gente fa una scelta estrema come il terrorismo islamico, il terrorismo religioso. Lo presi alla lettera e alcuni mesi dopo mi ritrovai in Afghanistan. Era il febbraio 2010, la mia prima missione di carattere militare”.
Come ci sei arrivato?
“Embedded, un mese a Kandahar con la Mountain Division, gli alpini americani. Mi ritrovai in un avamposto sperduto nel deserto di Kandahar, Pashul, dove ogni giorno i talebani attaccavano. Ho vissuto dieci giorni di combattimenti furiosi. Lì è iniziato tutto perché non mi sono più staccato dal giornalismo di guerra e credo di aver fatto quasi tutte le guerre contemporanee: Irak, Siria, Afghanistan, sono stato in Somalia, ho fatto il Nagorno Karabakh, la Libia. Da ultimo, questa guerra vicino a casa nostra. Non ero mai stato in Ucraina, non me ne ero occupato in precedenza, ma questa volta il direttore mi ha chiesto di andare, perché al giornale sono quello che fa queste cose un po’ di prima linea. Mi ha detto: abbiamo bisogno di una persona che vada a sentire proprio il fronte, i combattimenti. E sono partito”.
A parte l’origine militare della tua famiglia, sono richieste caratteristiche particolari per fare il corrispondente di guerra? Ti sei dovuto preparare, hai fatto corsi?
“Ci vuole prima di tutto passione. Nessuno è costretto a farlo. Il giornalismo di guerra è molto particolare, devi avere una sorta di vocazione interiore, perché non è come andare all’assemblea di Confindustria o alla Convention del Partito Repubblicano o Democratico, vivi in mezzo ai pericoli. Si rischia la vita in ogni momento. Devi avere una gran voglia di farlo, forza di volontà che ti porta anche a una preparazione adeguata”.
In che consiste?
“In un addestramento tattico. Devi capire sul campo come si sta in guerra perché alla prima distrazione rischi e in un attimo succede una fatalità. Devi avere una serie di competenze di primo soccorso, poi c’è lo studio del posto dove vai. Il miglior bagaglio è capire chi ci abita, comprenderne la mentalità per rapportarsi correttamente nei loro confronti. Per interloquire, altrimenti si rischia d’essere fuori luogo. È molto facile farsi detestare da certe popolazioni”.
Ma corsi particolari, con l’esercito, attraverso il tuo giornale?
“Ho fatto il servizio militare, una preparazione di base già l’avevo. Poi addestramenti più o meno specifici, un corso di primo soccorso e tutto quel che serve sapere nel caso che cadi e ti rompi una gamba, piuttosto che se ti feriscono o hai un collasso per il troppo caldo… Quel che si cerca di fare è studiare sempre, migliorare, aggiornarsi e farlo anche nella prospettiva psico-fisica di queste missioni. Del resto è nel Dna di noi giornalisti capire dove si va, parlare con la gente, affrontare gli stress. I rischi ci sono e farsi consigliare come affrontarli è necessario”.
Non staccare mai, di fatto…
“Di fatto è un tipo di giornalismo che non concede pause. Anche quando sei a casa ci pensi sempre, comunque fa parte della preparazione e della missione successiva”.
Tu dove vivi in genere? Dove ti appoggi, ad un albergo o che altro?
“Dove capita, veramente. Anche ora in Ucraina siamo stati dove c’erano degli alberghi… anche se alberghi è una parolona. Si trattava di strutture ricettive ancora operanti, oppure andavamo in appartamenti dove ci ospitavano. A volta capita di dormire in macchina, in caserme, è capitato di dormire in trincea o per strada all’addiaccio, luoghi di fortuna. Talvolta, sotto l’ala protettrice dei militari, ci siamo fermati dove si sono fermati loro. Ma è programmabile fino a un certo punto, devi essere pronto in qualche misura a gioire della soluzione del momento. E se si tratta di dormire, sei contento pure di accomodarti sul sedile d’una macchina”.
Nel Donbass e più in generale in Ucraina, come organizzi la giornata? Cosa ti prefiggi di raccontare?
“Il mio obiettivo è raccontare una storia al giorno. Per me è importante raccontarla scrivendola, o raccontarla in tv. Ho lavorato per SkyTg24 quand’ero in Donbass e ho cercato di raccontare ogni giorno una storia, una spigolatura, un aspetto, un personaggio, una fase della guerra. Avere questa capacità significa andare in giro. La mia giornata iniziava la mattina alle 6, c’è sempre molta adrenalina e una volta che hai riposato il corpo, la mente è già attiva. Quando ho avuto una casa con alcuni colleghi dopo che mi ero alzato avevo questo rito catartico di lavare i piatti. Per iniziare la giornata bene. Mentre lavavo pensavo, a come organizzarmi, mi venivano le idee. La manualità del gesto mi rassicurava”.
Condivido. E poi?
“Poi si esce con tutta l’attrezzatura, giubbetto, elmetto, ho sempre con me due telefoni, con uno faccio le foto, con l’altro i video, poi un iPad che infilo nel giubbetto antiproiettile, perché lo uso come taccuino d’appunti. Nei momenti morti e durante gli spostamenti mi metto a scrivere il pezzo e una volta alla base continuo col computer. Si va dove s’è deciso di andare nella minima preparazione che si fa il giorno prima. Se per esempio di decide di andare in prima linea si prende contatto con l’unità delle forze armate che si trovano sul posto e ci s’aggancia a loro e con loro s’attende di capire quel che succede e si racconta”.
In una situazione complessa come quella ucraina, ma può essere qualsiasi luogo, com’è possibile vedere tutto quel che accade? Come ti rapporti con le fonti? Quali sono, come le controlli, le agganci, come fai i riscontri?
“Vedere tutto è impossibile. Devi cercare di vedere il più possibile anche quando non ti è permesso. Spesso accade che le cose non te le fanno vedere, quindi devi avere la capacità di ricezione abbastanza sviluppata, di riuscire a cogliere il momento e in particolare tutto quel che vedi e che non vedi. Intuirlo, attraverso quello che ti raccontano, le immagini, ma persino le sensazioni. Sta a te sviluppare una sensibilità tale da esser in grado di filtrare tutto quel che ti viene raccontato. È logico che se stai con gli ucraini non ti verranno mai a raccontare cose oggettivamente negative per loro”.
Fai un esempio.
“Una delle cose più complicate è stata la ricostruzione della dinamica, il 9 aprile se non sbaglio, del missile scoppiato sulla stazione ferroviaria di Kramators’k in Donbass. Ha ucciso 52 persone, tra cui 7 bambini. Capire esattamente da dove veniva il missile e soprattutto se era stato puntato sulla stazione per fare una strage di civili o su un altro obiettivo, è stato difficile. Alla fine siamo riusciti a capire, attraverso una ricostruzione della traiettoria, che i filorussi l’avevano puntato su una base militare vicina alla stazione, ma probabilmente è stato intercettato, solo che il caso ha voluto che una volta intercettato sia esploso sopra. Se stavi a sentire gli ucraini ti dicevano che l’hanno puntato sulla stazione per fare una strage di civili, se sentivi i russi ti dicevano che era stato lanciato dagli ucraini per provocare. In queste situazioni tu che devi capire veramente solo attraverso le tue capacità, le tue doti di giornalismo investigativo”.
Quanto ti rapporti con la redazione centrale? Quanto ti indirizza, quante informazioni vi scambiate, quanto ti sostiene e in che modo?
“Lo scambio è continuo. Ma si tratta sempre di capire loro cosa vogliono e tu cosa gli suggerisci. Tu sei sul terreno, sei il faro della redazione”.
La redazione centrale ha le agenzie…
“Esatto, hai detto bene, e questo è l’altro elemento perché c’è il rischio che quando sei sul terreno ti focalizzi su quella micro-guerra che riguarda quella specifica parte di teatro in cui ti trovi e quindi, ovviamente, rischi di perdere la visione d’insieme. Avere un interscambio con la redazione, farti mandare le agenzie, un po’ d’elementi più ampi rispetto a quelli che stai vivendo in loco, è importante per mantenere viva e presente la visione d’insieme del conflitto. Lo scambio permette di creare una giusta interazione tra centro e periferia, per un lavoro armonioso, organico, completo”.
Ti muovi da solo o t’appoggi all’esercito? Ma come cambiano i rapporti e quanto influisce sulla tua libertà, di movimento ed espressiva?
“Di solito parto da solo, a meno che non sia un viaggio tutto organizzato in embedding. In quel caso m’è capitato, come la prima volta che sono andato in Afghanistan, che sono diventato parte di quell’esercito e ho trascorso tutti e trenta i giorni con le forze armate. In altri casi si va per conto proprio, poi si può esser soli o in compagnia. Di solito ho alcuni colleghi con cui m’accompagno e che sono quelli con cui mi trovo meglio, affidabili ed esperti. Poi, è logico, per andare in prima linea ti devi agganciare temporaneamente ed ‘ebbendare’ con delle unità. Ma è anche l’unico modo per arrivarci, non puoi farlo da solo: in prima linea rischi che ti spari chi è dall’altra parte, ma anche chi è dalla tua stessa. E quando sei embedded in quel momento fai quello che fanno loro, se c’è da correre corri, se c’è da ripararsi ti ripari, se c’è da scavare una buca lo fai e se c’è da salvare la pelle lo fai nello stesso loro modo. Con la differenza che loro hanno in mano un fucile e tu hai in mano una telecamera o un taccuino”.
Ovviamente non tutte le testate si possono permettere un giornalista sul posto. Sono molti i free lance al fronte? Come sono e come si comportano?
“Sono tanti. Sono ridiventati la maggioranza. Specie in questa guerra ucraina che ha avuto una sovraesposizione enorme per il fatto che avviene alle porte di casa. È una guerra europea e, soprattutto, è una guerra che per la prima volta in ottant’anni ha come attore principale una potenza nucleare. Stiamo parlando della Russia, cioè dell’erede di uno dei grandi imperi della Guerra Fredda del secolo scorso. Non è che la Russia qui sia coinvolta di sponda come in Siria, è la diretta titolare del conflitto, anche in quanto aggressore. Tutti sono qui a vedere. Tutti quelli che fanno questo mestiere, moltissimi free lance”.
Tu ti accompagni ai free lance?
“Di frequente e spesso i free lance sono straordinari, molto preparati, specie i fotografi. A differenza di chi scrive soltanto, devono spingersi un po’ oltre, se vogliono cogliere lo scatto giusto. In particolare nel Donbass ho trovato persone che hanno già fatto la guerra nel 2014 e poi sono tornate nel ’15, conoscono la storia e le dinamiche del territorio, dell’Ucraina e della Russia molto e molto meglio di tanti giornalisti mandati dalle grandi testate, che però hanno trascorso il loro tempo sui balconi e nelle stanze degli alberghi. Però pretendono di dar lezioni sulla guerra, di scrivere manuali sul conflitto”.
I free lance si finanziano da sé?
“Diciamo che a volte raccolgono una serie di input, sono quelli che hanno un incarico, ricevendolo dall’agenzia di stampa tedesca piuttosto che da un giornale. Gli dicono: a me interessa che vai lì, fammi delle foto. Raccolgono una serie di assignment, compiti che gli vengono affidati e loro li svolgono. Sul posto nascono molte opportunità. Ho visto per esempio free lance lavorare per le tv italiane perché queste non mandavano nessuno sul campo per motivi di policy, di sicurezza. Io ho lavorato per SkyTg24, è stata un’esperienza straordinaria, non avevo mai fatto televisione in maniera così intensiva. La loro risposta è stata molto positiva, perché li ho portati dove la guerra era veramente combattuta, sotto i bombardamenti e negli scambi di fuoco delle trincee”.
Quanto ti appoggi o utilizzi i fixer, gli intermediari locali che aiutano con la lingua, le indicazioni per gli spostamenti?
“Sempre, perché comunque per quanto studi non conosci mai abbastanza usi e costumi del posto, ma anche la toponomastica, come spostarsi, le strade e poi parliamo di posti accidentati per cui è facile sbagliare e ritrovarsi nel luogo sbagliato. Il fixer è fondamentale, come lo è la lingua, perché qui non si parla inglese”.
È pericoloso muoversi con loro? È un rapporto di fiducia quello su cui ti basi.
“È un rapporto di fiducia, poi dipende da fixer a fixer. Ce ne sono certi molto prudenti, timorosi per cui non vanno oltre un certo limite, ce ne sono altri molto coraggiosi e anche ben preparati che si spingono in zone molto pericolose. Dipende da quello che vuoi e in virtù di ciò ti accompagnano o meno, cercando d’essere all’altezza delle tue esigenze e aspettative”.
In questa guerra non c’è il rischio di una inflazione di corrispondenti, inviati e free lance?
“Assolutamente sì. Purtroppo si assiste a un fenomeno che è piuttosto deprimente, a mio avviso, quello d’andare a timbrare il cartellino, andar lì e rivendicare il fatto d’essere stati in Ucraina. Molti colleghi che non avevano mai fatto questo tipo di mestiere sono andati in guerra, alcuni per cimentarsi veramente con la professione del corrispondente di guerra, altri semplicemente per dire ci sono andato e magari di guerra ne hanno vista ben poca. Poi ci sono quelli che non si muovono dall’albergo, fanno le dirette e dicono d’esser stati al centro dei combattimenti”.
Che guerra è questa in Ucraina?
“Una guerra strana, perché da una parte c’è la dimensione dei conflitti novecenteschi – della Prima e Seconda Guerra Mondiale – con le trincee. Io così le trincee come erano nella Prima Guerra non le avevo mai viste. Dall’altra, ci sono le caratteristiche delle guerre moderne, le tecnologie, l’uso dei droni, soprattutto la infowar, la guerra d’informazione, vero elemento innovativo di questa guerra”.
Spiegati.
“E’ una guerra che si combatte non solo sulle tre tradizionali dimensioni, cielo, terra e aria, ma anche su una quarta dimensione che è mediatica. Basti vedere la propaganda russa, il martellamento di Zelensky, che ogni giorno parla con qualcuno o a qualcuno. È un elemento nuovo e secondo me rende questo conflitto interessante e allo stesso tempo più complicato. Ma bisognerebbe ritornare a un po’ di sobrietà”.
In che senso?
“Raccontare le guerre deve essere qualcosa di serio e non perché bisogna timbrare un cartellino e dire io c’ero, come è successo nella prima guerra del Golfo datata 1991. Dove sono andati tutti, tanto la guerra si seguiva da lontano. Questa è una guerra che devi vedere da vicino per capire cosa succede. Il mio invito è a un po’ di sobrietà”.
Come ti comporti nel controllo delle notizie e delle fonti? Come ti difendi dalle fake news di un campo e dell’altro?
“Accuratezza, riscontro, fact cheking. Avere fonti autentiche sul campo che possano confermare o meno, avere la capacità e soprattutto la voglia di controllare, perché più spesso è il tempo, la superficialità, la svogliatezza a costituire il vero problema. E poi stare molto attenti a tutto ciò che gira sui social, che sono strumenti straordinari se presi e usati in maniera coerente e rispettosa, ma sono armi di distrazione di massa se vengono usati in maniera subdola. Bisogna stare attenti, perdere tempo e aver voglia di fare riscontri. L’informazione è diventata parte organica del conflitto. Ma è un modo per capire il conflitto. Che non si gioca più sulla base di aerei, carri armati, navi, ma sulla dimensione cyber. Con gli hacker”.
In questo caso informazione e disinformazione però si fanno la guerra.
“Sono parte degli strumenti, l’informazione può essere utilizzata anche come arma”.
Quanto la guerra sta cambiando il giornalismo?
“Direi che il giornalismo sta cambiando indipendentemente dalla guerra ma nel modo di percepire, raccontare i singoli eventi. Anche grandi, come è stata l’elezione di Biden piuttosto che il ritiro dall’Afghanistan o la guerra in Ucraina. Sta cambiando perché stanno evolvendo soprattutto i modi di raccontare, di fare giornalismo. Il rischio è che in questo cambiamento ci sia una disattenzione per i contenuti. Il problema fondamentale è che comunque si racconti un evento, su un social, su un sito, sulla carta stampata, in tv o in radio, occorre sempre fare attenzione alla qualità del contenuto e soprattutto alla sua coerenza. Cioè che sia un contenuto che rispecchi la realtà. E che non sia contaminato da fenomeni di manipolazione, di fake news. In certi casi, il conflitto si è trasformato in una sorta di resa dei conti tra giornalisti, tra talk show, tra esperti. Alla fine, trattano in maniera secondaria la guerra nella sua essenza e la utilizzano per regolare i conti tra loro. Con talk show che si rispondono, oppure personaggi che nei talk si confrontano per una contesa tutta interna alla dialettica tra loro. Questo rovina l’informazione, perché porta partigianerie, risse, distraendo l’attenzione dal vero fatto: la guerra, che è un dramma di cui pagano le conseguenze soprattutto i civili”.
Francesco Semprini arrivò a New York a luglio 2001, due mesi prima dell’11 settembre, per studiare l’inglese, ma in attesa di trovare un’occupazione, qualcosa che potesse piacergli. Fare il giornalista non era nei suoi piani: “Il mio progetto era di stare tre mesi, fare l’estate fuori. Frequentavo una scuola a 200 metri dal World Trade Center e quella mattina, per una serie di casualità, non ci sono andato. Avevo iniziato a lavorare in un’impresa di costruzioni, facevo il manovale. Quella mattina un collega mi chiama e mi dice ‘stanno bombardando i gemelli’”.
Tutti lo consigliano di tornare in Italia, ma lui resta a New York. Si iscrive a un corso di specializzazione in Storia della finanza, mentre fa diversi lavori: manovale, cameriere in un ristorante, archivista in uno studio medico e a un certo punto “inciampa” nella redazione del Sole 24 Ore di New York, “28esimo piano di un palazzo sulla Fifth Avenue, un posto pieno di giornalisti, un po’ Ambasciata della Confindustria negli Stati Uniti”. È il settembre 2002, fa uno stage, ricerche dati per i corrispondenti. Ma nell’agenzia del Sole viene a mancare un giornalista e gli chiedono di dare una mano, nel settore del mercato finanziario. “Il mestiere mi è piaciuto, io sono piaciuto a loro. Sono arrivato a diventare coordinatore, di fatto capo di quel servizio di agenzia, poi nel 2007 Maurizio Molinari, che allora era corrispondente, mi fa la proposta di diventare suo numero due a La Stampa, dove sono stato assunto”.
(nella foto, Francesco Semprini, in Donbass)