di ROBERTO SEGHETTI

La News Media Alliance, organizzazione che rappresenta oltre duemila testate giornalistiche statunitensi, ha stimato che nel 2018 Google ha ricavato 4,7 miliardi di dollari grazie al rilancio gratuito delle notizie prese dalla stampa americana, alla quale poi non ha girato nemmeno un centesimo di quel tesoretto.
La società di ricerca Deloitte, sollecitata e ingaggiata da Google, ha invece messo in luce quanto i media tradizionali debbano buona parte dei propri incassi sul web proprio alle segnalazioni del colosso mondiale della ricerca online. In uno studio relativo a 51 editori di Spagna, Francia, Germania e Regno Unito (dal 2015 al 2017), gli esperti della Deloitte hanno sottolineato che il traffico web supporta il 10,2 per cento delle entrate totali dei media tradizionali. Di conseguenza, dato che il traffico arrivato alle testate online della stampa tradizionale tramite segnalazione dei motori di ricerca o dei social ha superato il 60 per cento del totale, oltre il 6 per cento delle entrate complessive degli editori di stampa deriverebbero dal rimbalzo dei lettori dovuto a Google e compagni.

la metà della torta pubblicitaria

Numeri gonfiati ad arte? Valutazioni di parte, l’una e l’altra? La verità è che ognuna di queste stime ha qualche fondamento nella realtà e tutte e due insieme delineano un incontrovertibile dato di fatto: il rapporto di forze è ormai troppo squilibrato e rischia di minare dalle fondamenta l’assetto economico dell’informazione, cioè la possibilità di vita e di sopravvivenza di uno dei pilastri della democrazia così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. Uno squilibrio, che è dovuto sia allo sviluppo impetuoso delle attività digitali e al naturale spostamento del consumo e degli affari verso il nuovo mondo, sia alla diga costruita a monte dai colossi del web per trattenere nelle proprie casse la raccolta pubblicitaria, lasciando defluire a valle solo poche briciole, per di più eludendo per larghissima parte la tassazione nei diversi paesi.
Il punto di partenza per capire quale sia la posta in gioco è proprio l’ammontare delle risorse che attraverso la pubblicità finanziano le casse dei media. La serie storica degli investimenti pubblicitari nei diversi settori mostra un andamento chiarissimo. Basta dare un’occhiata ai grafici realizzati da Human Highway con la raccolta dei dati Nielsen e le stime del Politecnico di Milano e di Iab per quanto riguarda Internet. Nel 2001 Internet raccoglieva appena 102 milioni di euro di investimenti pubblicitari, contro il miliardo e 254 milioni dei periodici e il miliardo e 895 milioni dei quotidiani. Nel 2010 la raccolta pubblicitaria via Internet toccò il miliardo e 210 milioni di euro, contro gli 830 milioni dei periodici e il miliardo e 460 milioni dei quotidiani. Nel 2018, internet ha superato la raccolta di 2,8 miliardi di euro, contro i 393 milioni dei periodici e i 599 milioni dei quotidiani. Nel 2020-2021 gli esperti prevedono che la raccolta web superi addirittura il 50 per cento della torta totale, scavalcando anche la Tv.
Questi dati segnalano, però, che vi è anche qualcosa di più: oltre ad uno spostamento naturale dovuto al diffondersi dell’innovazione tecnologica nella società, pesano anche gli effetti di uno scambio squilibrato tra dare e avere, che sta portando la stampa tradizionale al soffocamento e che è causato dalla posizione dominante dei colossi del web.
Da che cosa lo si evince? Basta ricordare l’esperienza compiuta in Spagna nel 2014, guardare ciò che sta accadendo in Francia in queste settimane e valutare gli stessi dati di traffico in Italia.
In particolare, in Spagna, ancor prima che intervenisse l’Unione Europea, fu approvata una legge per rendere obbligatorio il pagamento del copyright rispetto alla pubblicazione sul web di articoli tratti dai giornali tradizionali. Sembrava una norma ragionevole. Ogni giornale sa bene quanto costa arrivare a un articolo, a un’inchiesta, a un reportage, quanto costa per esempio in questi mesi mantenere un inviato in Siria. Sembrava, e sembrerebbe ancora ragionevole, che il prodotto di tanto sforzo non potesse essere usato da altri per accaparrare traffico e pubblicità, senza versare nemmeno un contributo. Ma la realtà dei rapporti di forza ha vinto sulla ragionevolezza. Per non sottostare a quella norma, ritenendola economicamente ingiusta, Google chiuse il servizio Google news. E senza quel flusso di traffico aggiuntivo diversi piccoli editori spagnoli sono finiti in crisi.
Quest’anno, dopo l’approvazione della normativa sul copyright a Bruxelles, la Francia è stato il primo paese a recepirla nel proprio ordinamento. Google ha minacciato di non rilanciare più gli articoli presi dai giornali, limitandosi a pubblicare titoli e link. Gli editori francesi, memori dell’esperienza spagnola e ormai consapevoli della posta in gioco, hanno chinato la testa: non chiederanno il pagamento del copyright secondo la legge, ma hanno presentato un ricorso all’antitrust. Se ne riparlerà dunque dopo una lunga istruttoria (sempre che ci si arrivi) tra diversi anni.
Un’occhiata ai dati di bilancio e di traffico web degli editori tradizionali italiani fa capire ancor meglio le ragioni di questi avvenimenti. Nell’ultima semestrale (2019) Gedi ha dichiarato 302,9 milioni di euro di ricavi consolidati; di questi ben il 12 per cento ormai deriva da attività digitali. Rcs ha dichiarato nello stesso periodo 475,5 milioni di ricavi netti e di questi ben il 16,8 per cento deriva dal web. Quanto conta in queste poste il traffico generato dalla segnalazione dei colossi del web, motori di ricerca o social?
Tanto per fare un esempio, secondo una stima interna, una delle testate online più identificabili e più storicamente radicate, come Repubblica.it, deve circa il 20 per cento del proprio traffico ai rimbalzi da Google & co. Per testate meno conosciute, meno forti e meno storicamente radicate si arriva invece, effettivamente e pericolosamente, intorno a quel circa 60 per cento citato dalla ricerca Deloitte.

Ma l’offerta resta la stessa

In parole povere: oggi nessun editore è più in grado di rinunciare al traffico derivante dal rimbalzo dei lettori dai motori di ricerca e dai social sulla propria testata. Non lo è un editore da solo e non lo sono nemmeno tutti insieme: la posizione dominante dei motori di ricerca e dei social rende impari la battaglia, anche se è chiaro a tutti che la pubblicità viene trattenuta per larga parte a monte.
E allora? Luca De Biase, collega del Sole 24 Ore e uno dei giornalisti che fin dall’inizio ha seguito con più acume le conseguenze dell’innovazione tecnologia, ha criticato gli editori per non aver capito per tempo che era cambiato il campo di gioco: i motori di ricerca sono stati bravi a trovare formule facili di consultazione. I giornali non hanno cambiato la propria offerta, lanciandosi per esempio sulle informazioni commerciali di servizio.
Ma è questo il compito della stampa? Può essere una risposta economica. Ma lo è anche dal punto di vista del senso profondo che ha l’informazione nel nostro mondo?
Un fatto resta comunque certo: se si vuol riequilibrare il rapporto di forza tra i media tradizionali e Google & co la via maestra non può che essere quella di una lunga e tenace battaglia antitrust a livello europeo.
E nel frattempo? L’Italia sembra aver imboccato per ora la strada del risarcimento. Non se ne parla apertamente in questi termini, ma nei fatti è quello che sta tentando di fare il governo. Non a caso Andrea Martella, il sottosegretario con delega all’Editoria, ha lavorato a fondo per dirottare una parte seppure piccola della Digital tax (su Google, Facebook, ecc..) verso il fondo per il pluralismo dell’editoria. Quale sarà il risultato concreto in termini di risorse effettive si vedrà dopo il passaggio della legge di bilancio alle Camere.

(nella foto: la sede di Dublino di Google)

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