di STEFANO BRUSADELLI

Vi sono testate – non molte – che hanno lasciato una traccia non solo nella storia del giornalismo, ma anche nella vicenda più generale del Paese. Lo hanno fatto non solo innovando il modo di scrivere, ma introducendo temi nuovi all’attenzione del grande pubblico, modificandone i gusti e la sensibilità.

Panorama è stato certamente tra queste. E’ difficile pensare all’Italia tra gli anni Sessanta e Novanta senza pensare a questa rivista, nata nel 1962 e poi divenuta settimanale cinque anni più tardi con la direzione di Lamberto Sechi. Il suo approccio così rigoroso ma insieme scanzonato stimolò la modernizzazione di un Paese che imparava a coniugare la durezza delle battaglie politiche con la leggerezza. Temi come la scienza, la medicina, la sessualità, la difesa dell’ambiente, il vivere e mangiar bene, fecero per la prima volta irruzione, e tutti insieme, dentro un prodotto destinato a un lettorato vasto, intergenerazionale e interclassista. Il linguaggio, ispirato all’asciuttezza della scuola anglosassone, fece di colpo apparire insopportabile tutto il barocchismo fino ad allora imperante nelle redazioni italiane.

un viaggio e un manuale

A quella straordinaria avventura editoriale è dedicato un volume che ho avuto il privilegio di curare: “Il settimanale che ha cambiato l’Italia – Il giornalismo di Panorama dal ‘62 al ‘94“, pubblicato dalla Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori guidata da Luca Formenton. Oltre cinquecento pagine nelle quali i lettori (e spero che tra questi siano numerosi i giovani che si accostano al nostro meraviglioso mestiere) troveranno i segreti dei grandi direttori e dei grandi inviati, un’antologia dei pezzi migliori apparsi durante quei 33 anni, le testimonianze di molti colleghi. Insomma (speriamo) un manuale di buon giornalismo e insieme un viaggio nella storia di decenni decisivi per la nostra nazione.

La lettura di questo libro (me ne sono accorto anche durante le presentazioni), suscita però sempre una domanda, sacrosanta, che è la seguente: cosa resta, ora che il segmento dei settimanali è in acuta sofferenza, della grande lezione di “quel” Panorama?

ricostruzione di storie

Molti insegnamenti, credo. E provo, sinteticamente, a elencarli, senza pretendere di ordinarli in una gerarchia. Che il giornalismo non può diventare una (facile) collezione quotidiana di opinioni, o di pettegolezzi, ma resta fondato sulla faticosa ricostruzione di storie, debitamente accertate e poi esposte in un ottimo italiano. Che del punto occorre fare un uso abbondante mentre degli aggettivi e degli avverbi, come delle spezie in cucina, bisogna fare un uso moderato. Che le fonti delle informazioni vanno sempre chiaramente identificate per rispetto nei confronti dei lettori. Che i pezzi vanno sottoposti al vaglio di almeno tre altri cervelli, oltre a quello dell’autore, prima di essere messi in pagina.

Restano, inoltre, le direttive che Sechi dava ai suoi redattori, e che da loro (essendo tanti di loro poi diventati direttori) si sono trasmesse in tutti i giornali italiani. La prima, e più celebre, imponeva “i fatti separati dalle opinioni“, e restò per molti anni stampata sotto la testata di Panorama. Formula che ovviamente non andava presa alla lettera (chi fa il nostro mestiere sa che la stessa scelta di occuparsi di un fatto piuttosto che di un altro rappresenta la contaminazione del fatto con un’opinione) ma che imponeva di separare rigorosamente i contributi giornalistici dai commenti. La seconda, meno nota, era: “scrivete come se foste marziani appena arrivati sulla Terra“. La terza, parente della seconda, che “a fare fatica debbono essere i giornalisti, non i lettori“. Due modi per ricordare quanto sono irritanti i pezzi che presuppongono da parte di chi legge conoscenze di fatti, di personaggi, persino di sigle e di acronimi che egli non è obbligato ad avere, e perciò vanno sempre ben spiegati dallo scrivente.

comandamenti e disamore

Sono questi comandamenti oggi ancora in auge ? Temo proprio di no. E mi chiedo se anche questo disuso non contribuisca, insieme a tanti altri fattori, al disamore crescente nei confronti della carta stampata.

Il volume di cui vi sto parlando (arricchito da una prefazione di Giuliano Amato, ex collaboratore della rivista, e da un saggio della docente di storia del giornalismo della Statale di Milano Irene Piazzoni) si ferma al 1994, anno in cui Silvio Berlusconi, già proprietario della testata dal 1990, divenne Presidente del Consiglio. Non si tratta di una scelta suggerita da un atteggiamento preconcetto nei confronti del Panorama successivo. Alcuni di noi (me compreso) hanno proseguito a lungo a lavorare lì anche dopo il ‘94, senza che la loro autonomia venisse minacciata. Ma quando un editore, chiunque esso sia, decide di impegnarsi direttamente in politica, la storia della sua testata diventa inevitabilmente un’altra.

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