di VITTORIO ROIDI
Per salvare il giornalismo ci vuole più qualità. Lo dice chi è convinto che alla libertà e al pluralismo che, anche grazie a Internet, offrono a chiunque la possibilità di informarsi e di informare, si debba aggiungere una professione più “alta”, che dia maggiori garanzie per battere le fake news e le manipolazioni. Un’idea che non si concilia con il progetto di riforma votato dal Consiglio nazionale dei giornalisti. L’organismo professionale – che cerca giustamente di allargare la famiglia degli informatori – ha elaborato un testo che mette sul tavolo della commissione parlamentare incaricata di avviare lo studio della riforma della legge del 1963. I temi centrali, sui quali dovrebbe poggiare il cambiamento sono tre: la laurea, il praticantato, l’esclusività del lavoro professionistico.
Laurea. Sessanta anni fa il legislatore meditò a lungo: un diploma universitario era indispensabile? Prevalse il no, fra mille dubbi. Vinsero quelli che pensavano che chiunque, ad un certo punto della vita, potesse dedicarsi a questa attività, anche avendo un titolo di studio “basso” e pur sapendo che una professione senza laurea era una contraddizione in termini. Oggi è cambiato il mondo e se si vuole alzare il livello, una preparazione accademica appare indispensabile. Poi si può discutere la strada da scegliere, forse una laurea triennale specifica, forse diversi corsi accademici. Ma un professionista, dice il CN, deve avere una preparazione universitaria.
Praticantato. Finora è stato il percorso obbligatorio per entrare nella professione: 18 mesi all’interno di una testata giornalistica, cioè una redazione, come in altri campi: il medico, l’avvocato, l’ingegnere, imparano stando all’interno di un gruppo di lavoro, qualificato e adatto alla “iniziazione” del nuovo arrivato. Al termine, c’è poi l’esame di stato. L’idea del CN invece è quella di un cittadino laureato che si presenta all’Ordine regionale, chiede l’iscrizione e fa pratica sotto la sorveglianza di un tutor, in “ambiti” adeguati dice il progetto, senza l’obbligo di lavorare all’interno di una testata. Eppure da trent’anni nelle scuole dell’Ordine proprio l’esistenza di vere testate giornalistiche ha costituito la garanzia che il tirocinio si svolgesse sul campo, pubblicando veri giornali (di carta, radiotelevisivi o anche on line). La proposta rinnega ciò che si è fatto in passato, affida l’insegnamento ad un tutor, il quale non si sa né dove né quando potrà ammaestrare il praticante che gli è stato affidato. Una novità che provocherà un effetto arlecchino, perché tutto sarà demandato agli Ordini regionali. Quale salto di qualità si pensa di ottenere? Un medico o un avvocato potrebbero prepararsi in Piemonte, in Umbria o in Puglia secondo percorsi, criteri e specializzazioni differenti? E come si potrebbe assicurare che il giornalista impari a lavorare su “piattaforme” che prevedono strumenti e tecniche diverse?
Esclusività. Su questo punto la proposta è sorprendente. Da sessanta anni il professionista è colui che fa attività “in modo esclusivo e continuativo” dice la legge. Ora si vuole cambiare e si dice che egli sarà tenuto a svolgere un’attività giornalistica soltanto prevalente. Il giornalista professionista deve garantire autonomia e indipendenza, Attività prevalente vuol dire che può svolgere anche qualsiasi altro lavoro. Sarebbe un passo indietro gigantesco. Quale principio etico lo guiderebbe? E chi valuta cosa prevale e in quali condizioni? Non chiamiamolo neppure conflitto di interessi. Il suo dovere di lavorare per i cittadini che fine fa? Che garanzia può dare al lettore un articolo sulla sanità scritto da un giornalista professionista che è anche stipendiato da un ospedale o da una clinica? Un chirurgo, un ortopedico, un virologo possono naturalmente scrivere e diffondere la propria opinione. Quanti ne abbiamo sentiti parlare in tv durante l’epidemia di Covid? Il loro contributo può essere prezioso in quanto esperti del proprio settore. Ma quei professori, primari, esperti medici non possono essere giornalisti professionisti.
Già la normativa attuale è molto discutibile. Che un giornalista, una volta che ad empio sia stato eletto alla carica di sindaco o di deputato, possa restare iscritto all’albo dei giornalisti professionisti è un elemento di confusione e di ambiguità. Quel collega ha fatto una scelta diversa. Gli resta ovviamente il diritto di scrivere, ma dovrebbe chiedere di essere trasferito nell’elenco dei pubblicisti (per il quale l’esclusività non è richiesta). Chi si è assunto il dovere di informare, deve farlo in modo esclusivo. Lo pensò il legislatore di 60 anni fa e quello di oggi non può abbattere un simile pilastro. Altrimenti crolla la casa. Il cittadino non saprà più chi lo sta informando. La credibilità della professione giornalistica, già traballante, scomparirà del tutto sotto il peso del semplice aggettivo prevalente.