di LUCIANA BORSATTI
C’è un preoccupante fenomeno che si aggira per l’Italia da quando è cominciato in Iran il movimento Donne Vita e Libertà: sono gli attacchi, sistematici e ripetitivi, di una parte dell’opposizione iraniana all’estero contro quei giornalisti che non si appiattiscono sulla visione della loro narrativa militante. E che si propongono di dare anche, insieme alla cronaca delle proteste e della inaccettabile repressione, un quadro più completo delle dinamiche sociali e del dibattito politico interni al Paese. Perché non è ragionevole pensare, come ci fa invece intendere da mesi quell’informazione parziale e militante, che il Paese si divida semplicisticamente in due: il cosiddetto “regime” – che secondo certi attivisti e certi giornalisti pochi mesi fa era ormai sul punto di crollare – e un esercito di giovani manifestanti a mani nude, ma sostenuti da tutto il resto del Paese. Le letture in bianco e nero vanno bene per la propaganda, non importa quanto giusti siano gli interessi che rappresenta, ma come è noto il giornalismo è un’altra cosa: punta a mettere insieme i pezzi di un puzzle più ampio, a dare una visione il più possibile completa della realtà. Perché l’informazione, se non cerca la completezza, non sarà mai informazione indipendente.
“Lobby per il ‘Regime'”
Ma questo principio base del giornalismo è invece apertamente ignorato da una parte della diaspora iraniana, che attacca sistematicamente i giornalisti non allineati al loro punto di vista. Li si accusa di fare da lobby per il “regime”, con la frequente insinuazione che ne traggano imprecisati vantaggi anche economici; di amplificare la propaganda della Repubblica Islamica; di sostenere i “riformisti”, un nome che ormai per loro equivale ad un insulto.
Da forza di riferimento del Movimento Verde del 2009 e poi bacino di consensi per il presidente moderato Hassan Rouhani nelle elezioni del 2013 e del 2017, la credibilità dei riformisti si è certo nettamente ridotta da allora, complice anche il ritiro unilaterale degli Usa, nel 2018, da quell’accordo sul nucleare (Jcpoa) che questi avevano sostenuto. Ed è certo diffusa l’opinione, tra gli oppositori in patria e all’estero, che non vi sia differenza alcuna, nei fatti, tra loro e gli ultraconservatori che ormai – sempre complice quel ritiro Usa dal Jcpoa – controllano ogni ambito del potere. Ma la voce dei moderato-riformisti permane nel dibattito politico interno, così come quella di numerosi altri soggetti attivi nel sindacato e nella società civile, alcuni dei quali – come la giornalista e attivista per i diritti umani Narges Mohammadi – continuano a parlare con coraggio anche dal carcere. Ma questo dibattito interno rimane tuttora oscurato sui nostri media, che dipendono dai siti e dai media di opposizione in lingua inglese per le traduzioni dal persiano, e necessariamente ad essi attingono le loro informazioni. Certo, dichiarare regolarmente la fonte di tali informazioni aiuta il giornalismo e anche il lettore, ma non basta a colmare l’ampio vuoto informativo che continua, a quasi un anno dalla morte di Mahsa Amini, sui contenuti politici sui quali si ragiona e si dibatte nel Paese. E con i quali qualunque fortunato rivoluzionario, che riuscisse davvero ad abbattere la Repubblica Islamica, dovrebbe fare i conti per rifondare il sistema politico. A meno di non voler eliminare ogni dissenso.
nucleare e “Naiaki”
Un’altra accusa che talvolta gli oppositori rivolgono ai giornalisti non allineati è quello di essere dei “naiaki”, neologismo in persiano che riproduce la pronuncia in inglese di Niac, ossia National Iranian American Council. Il quale, insieme alla parallela Niac Action, si definisce “un’organizzazione apartitica e senza scopo di lucro fondata nel 2002 per dare voce alla comunità iraniano-americana”, che “non riceve fondi dal governo iraniano né da quello statunitense” e la cui missione pone al centro il ruolo della comunità iraniana negli Usa nel “promuovere la pace e la diplomazia”. In linea con quest’ultimo obiettivo il Niac si dichiarò a favore del Jcpoa del 2015 e del programma dell’amministrazione Biden di farvi rientrare gli Usa, dopo il ritiro di Trump. Naturalmente ora è sotto gli occhi di tutti che, per il prevalere dei falchi di entrambe le parti, quell’accordo è un’occasione persa per sempre. Ma anche solo il sentirne parlare, da chi lo fa per diritto/dovere di cronaca, è come fumo negli occhi per certi oppositori, che invece continuano a chiedere l’espulsione degli ambasciatori iraniani dai Paesi europei – misura che avrebbe come immediata conseguenza la chiusura delle nostre ambasciate in Iran, e dunque l’impossibilità di qualunque contatto diplomatico (cosa non accaduta nemmeno con la Russia che ha aggredito l’Ucraina). Ma se non credono nella diplomazia, credono forse nella guerra? O nell’intervento armato Usa in Iran come già in Iraq o in Siria? O nel fomentare la guerra civile interna, armando bande di miliziani separatisti? O in altre sanzioni economiche – le uniche che contino davvero – contro il “regime”? Quando ormai gli Usa hanno già sanzionato tutto il sanzionabile, spingendo Teheran a cercare o rinforzare altre alleanze economiche, strategiche e militari con Russia e Cina, nella Shanghai Cooperation Organization (Sco), nella quale è appena entrata a pieno titolo, o nei Brics, dove si sta dando da fare per entrare?
esperienza diretta
Sono domande che ogni giornalista avrebbe il diritto/dovere di fare, ma che sembrano destinate a non avere risposta almeno dai detrattori, pronti invece a scagliare accuse non appena sentono parlare di accordo sul nucleare, di dubbia efficacia delle sanzioni e di riformisti. Chi scrive parla per esperienza diretta, per aver subito attacchi scomposti sia sui suoi profili social che ad una presentazione pubblica del suo ultimo libro, dedicato proprio alle proteste in Iran. In quell’occasione è stata verbalmente aggredita, insieme ad altri tre colleghi che vi partecipavano, da un sedicente attivista che se ne è poi vantato con i suoi follower, annunciando l’intento di compiere altre imprese del genere. Ma questo è poca cosa, se si pensa che ad alcuni colleghi, per minacce sui social da parte di elementi della diaspora, sono perfino state assegnate misure di protezione da parte del ministero dell’Interno. O se la si paragona alle dimensioni di vere e proprie campagne denigratorie, massicciamente alimentate in rete dalla diaspora iraniana, nei confronti di alcuni giornalisti e analisti irano-americani, a cui si era già fatto cenno su questo sito, e che sono state dettagliatamente indagate da vari media anglosassoni (su Politico uno degli articoli più recenti).
Vi è poi un’altra questione: le divisioni interne alla stessa diaspora. Se tutta l’opposizione all’estero si è subito appropriata del movimento Donna Vita Libertà, il tentativo di creare una piattaforma unitaria tra alcuni dei suoi soggetti si è ben presto sciolto. Il riferimento è in particolare a figure come la giornalista Masih Alinejad e il principe erede Reza Pahlavi, basati negli Usa, ad Hamed Esmailion in Canada e alla premio Nobel in esilio Shirin Ebadi: questi, con alcune altre personalità, nei mesi scorsi hanno cercato di concordare un comune programma politico per un’alternativa alla Repubblica Islamica, ma alla fine hanno fallito nell’impresa.
promozione in parlamento
E’ continuata invece la campagna di autopromozione del Consiglio nazionale della resistenza iraniana (Cnri), la realtà più organizzata dell’opposizione all’estero: una campagna approdata nel Parlamento italiano, dove il 12 luglio scorso è intervenuta di persona la leader Maryam Rajavi, incassando la firma di ben 307 parlamentari al programma in dieci punti della sua organizzazione. Per quella visita, da parte della leader di un’organizzazione che il governo iraniano considera terrorista, il ministero degli Esteri ha convocato il nostro ambasciatore a Teheran). Qui la componente politica dominante è il Mek o Mko, quei Mujaheddin del Popolo che definire “controversi” per i suoi trascorsi storici, sia tra gli iraniani che all’estero, è il minimo che un giornalista debba fare. Ma provate a chiamare in causa il Mek, anche solo per rilevare che i suoi simpatizzanti non sempre, intervenendo nello spazio pubblico o mediatico, si presentano come tali (per responsabilità anche dei giornalisti che non chiedono loro di farlo in sede di intervista): sui vostri account si scatenerà una tempesta di critiche, la maggior parte formulate in modo tale da far pensare che siano generate da troll.
racconto semplificato
Un’ultima questione: perché, dopo tanto e prolungato clamore mediatico, il movimento Donne Vita Libertà è quasi scomparso dalle cronache? Certo, le manifestazioni si sono diradate e la protesta ha piuttosto assunto la forma di una tenace e pervasiva disobbedienza civile rispetto all’obbligo del velo – il tema simbolo di questa stagione di rivolta – ma non solo. E’ opinione di chi scrive che sia stata proprio la semplificazione del racconto di allora a determinare il vuoto di oggi: se nei mesi delle proteste le nostre cronache avessero approfondito di più il contesto socio-politico del movimento, i suoi limiti e i suoi punti di forza, la molteplicità delle rivendicazioni – che andavano ben oltre la questione dell’hijab, investendo le istanze di vastissimi settori sociali – e anche i nuovi volti che il dissenso stava assumendo, forse qualche articolo in più si sarebbe scritto anche in questi mesi di relativa calma apparente, ma di grande cambiamento nel profondo tuttora in corso della società iraniana. E di disobbedienza, appunto, come prosecuzione della battaglia per i diritti negati. Un’occasione persa per molto giornalismo, e non solo per chi sostiene il movimento e vorrebbe che se ne parlasse di più.
Devo dire che io vedo per le strade tantissime donne senza il velo.. oramai non possono fare niente…
oggi come oggi il problema essenziale é l’economia e il carovita..
Le forze retrograde religiose e i neo liberisti insieme mettono in risalto il problema di Hejab e vogliono deviare opinione pubblica dagli altri problemi .. mentre il 70 percento delle donne sono molto povere.
Certo anche hejab e altri diritti devono essere risolti definitivamente, ma non alla maniera americana.
Giusto mantenere la schiena dritta. Larga parte dell'”opposizione iraniana all’estero” rappresenta a mala pena se stessa. E questo gli iraniani, anche i più critici, lo sanno bene…”they want to shape a different Iran, one that – in the words of protesting Iranian students – the students of Amir Kabir University on January 12, “will not rush into the arms of imperialism due to its fear of despotism, and one that in the name of resistance and fighting against imperialism will not legitimise despotism”.