di ANDREA GARIBALDI
Ci fu un tempo -anni ‘60, ‘70, ‘80- delle foto rubate. I cronisti andavano a casa delle vittime (omicidi, suicidi, incidenti) e cercavano di ottenere le immagini delle vittime stesse. Rubavano album, blandivano i parenti (“per ricordare la persona nel modo migliore, per non pubblicare le foto dell’obitorio”), svuotavano cornici.
Era una battaglia feroce, fra quotidiani. Non avere le foto migliori, delle comunioni, dei matrimoni, della classe, delle vacanze al mare o in montagna, significava aver fatto male il proprio lavoro, finire nelle retrovie.
Pian piano l’interesse per le foto è scemato. I giornali hanno cominciato a dare maggior importanza alla politica rispetto alla cronaca. Fin quando, poi, è arrivato Facebook e si è cominciato a saccheggiare i profili personali, senza bisogno di suonare nessun campanello, senza rischiare le male parole o le botte.
sciacalli e parafulmini
Tutto questo torna alla luce a proposito della tragedia di corso Francia, le due sedicenni Camilla e Gaia investite dal ventenne Pietro. Nonostante non ci sia più il problema delle foto da strappare alle famiglie, c’è ancora tanta confusione sui giornali di fronte a fatti clamorosi dove la gente muore e chi resta è senza speranza.
Ho rubato foto negli appartamenti pieni di pianto. Comprendo quindi tutte le ragioni di chi lavora, per la strada, di fretta, con l’assillo della concorrenza degli altri cronisti. Qui, in questo sito, non siamo più bravi, né più intelligenti, né più morali di nessuno. Cerchiamo solo di difendere le ragioni del buon giornalismo. Per separarlo da quello cattivo.
Negli ultimi decenni i giornalisti hanno perduto molto prestigio. Sono diventati una categoria mal sopportata, addirittura odiata. Davanti a ogni tragedia i giornalisti sono parafulmini, non è necessario che si comportino male, la parola sciacalli si è attaccato addosso alla categoria.
Qui vogliamo soltanto riflettere.
Crediamo sia oggi il tempo di una nuova etica del giornalismo. Cerchiamo di tratteggiarla seguendo la traccia del sangue su corso Francia.
Tanto per cominciare il nostro cronista dovrebbe cercare di ricostruire cosa è veramente accaduto. Giorno dopo giorno avvicinandosi sempre di più alla (impossibile) verità. Correggendo ciò che si è sbagliato, confermando ciò che è stato riportato con correttezza.
Ci sono elementi che compaiono e spariscono: per esempio è stato rubato il telefonino a una delle ragazze dopo l’incidente? E’ stato scritto, poi il filo si è smarrito. Ci sono testimoni che dicono che l’attraversamento è avvenuto sulle strisce, altri fuori dalle strisce: esistono elementi oggettivi per dire chi ha ragione, chi è attendibile e chi no? C’è ancora chi scrive -una settimana dopo l’impatto- che le ragazze avevano scavalcato il guardrail. In realtà avevano scavalcato un primo guardrail, a bordo strada, poi hanno attraversato mezza carreggiata e stavano per scavalcare il guardrail che divide i due sensi di marcia, ma sono state colpite prima.
Il nostro cronista e i nostri titolisti non definiscono le persone in modo indelebile. In un grande titolo Pietro è stato definito “drogato”. Avere nel sangue tracce di hashish e cocaina non significa essere drogato. Cautela nel dare “patenti”.
Il nostro cronista attribuisce sempre le versioni dei fatti non oggettive alle fonti da cui provengono. Il gioco di proteggere la fonte per non “bruciarla” è pericoloso. Si rischia di restare nelle maglie della fonte stessa, che capisce di avere un canale e di poterlo utilizzare in maniera irresponsabile.
Il nostro cronista cerca di avere con le famiglie e gli amici delle vittime un comportamento rispettoso e civile. Non ignora il dolore, non calpesta il pudore, non carpisce frasi non autorizzate, non inventa. I commenti di queste persone sono sempre molto ricercati, ma andrebbero ottenuti partendo sempre dalla comprensione del terribile stato in cui quelle persone sono precipitate. Mettersi quindi a disposizione, piuttosto che chiedere, offrire disponibilità a dare spazi, a fare appelli, dichiarazioni che interessano più loro che i capiredattori.
lavorare per i lettori
Il nostro cronista non cerca ad ogni costo colpevoli. Non è il suo compito, è il compito della magistratura. Il cronista lavora per i suoi lettori, per far comprendere meglio, giorno dopo giorno, cosa è successo davvero. In tal modo può, in certi casi, anche aiutare chi indaga.
Il nostro cronista cerca di non avere pregiudizi e quindi non prende posizione per una parte o per l’altra. Racconta i fatti e lascia che siano i lettori a farsi un’idea della situazione.
Racconta, fra l’altro, che Roma è ormai in gran parte al buio e che in questo modo il Comune aumenta l’insicurezza dei cittadini.
Insomma, gli organi di informazione devono cercare di ragionare sulle vicende. Ci sono tre giovani protagonisti. Due ragazze che non ci sono più e un ragazzo che porterà tutta la vita i segni di tutto questo.
Hanno due cose in comune.
Primo, non hanno rispettato le regole, pensando senza troppo pensare che le regole non siano un valore della convivenza.
Secondo, non hanno messo in conto che dietro l’angolo possa esserci la morte. Anzi, hanno creduto che la morte non fosse per loro. Condizioni esistenziali, probabilmente comuni a molti giovani come loro. Responsabilità personali, ma anche della società nella quale tutti viviamo e che contribuiamo a condurre. E’ uscita anche la notizia che traversare corso Francia dove non si può e quando non si può sia un “gioco” praticato in quella zona di Roma, un gioco estremo in cui la morte è qualcosa da cui si torna indietro.
Si perdono lettori seguendo i percorsi che abbiamo provato a delineare? Si perde terreno rispetto ai rivali?
Facciamo invece l’ipotesi che si possa riguadagnare considerazione. Non è un mestiere per signorine, ci siamo sentiti ripetere.
Ci siamo vantati di essere squali ed è finita che adesso tutti ci ritengono tali.