di VITTORIO ROIDI
No, la casacca no, non si può. Bisogna ribadirlo con forza: i dirigenti del servizio pubblico della Rai possono e devono essere di provenienza diversa, culturale e politica, ma se hanno una fede politica non possono scriverla sul biglietto da visita, nè rivendicarla durante un dibattito pubblico. Perché in Rai essi devono garantire libertà e autonomia ai loro colleghi e dipendenti. Non lo sapeva quel direttore dei programmi che ad Atreju ha citato esplicitamente il proprio partito. Ha fatto la figura del novizio, forse anche perché solo ora la destra italiana ha messo le mani sull’azienda di viale Mazzini.
Ma il discorso è più largo e addirittura più grave. Visto che coinvolge il comportamento dei giornalisti professionisti. In quasi tutte le trasmissioni televisive di approfondimento si vedono colleghi che di continuo “rappresentano” chiaramente una o l’altra forza politica, di maggioranza o di opposizione. Spesso sono sempre gli stessi, perfino le poltrone dove siedono sono riconoscibili. Chi organizza vuole sentirsi garantito, sicuro che siano presenti giornalisti che sempre, ripeto sempre, esprimano un’opinione vicina a chi governa o a chi si oppone. All’ascoltatore non è detto espressamente, ma è così. Alcuni sono stati capi dell’ufficio stampa di quel partito, oppure portavoce di quell’uomo politico o di quel ministro. Oggi lavorano per un giornale e come tali vengono chiamati a discutere in trasmissione. Naturalmente accanto ai “partigiani” siede anche un professionista più neutrale, più libero, meno legato da stretta simpatia politica. E invece sono tutti professionisti. Il loro dovere è identico (la “ricerca della verità sostanziale dei fatti”) anche se vanno a parlare alla festa dell’Unità, ad Atreju o alla Leopolda) non possono essere e neppure apparire servitori o simpatizzanti di una sola fazione.
cronaca e critica
Il fenomeno è preoccupante: aumenta il numero dei giornalisti “di parte”. La legge del 1969 attribuisce ai professionisti il diritto ”di cronaca e di critica”, dunque essi possono esprimere liberamente le proprie opinioni. Ci mancherebbe altro. Poi la legge aggiunge però che un professionista deve operare in “modo esclusivo” al servizio dei cittadini. Dunque non può servire altri interessi, cosa che possono fare invece i giornalisti pubblicisti che contemporaneamente possono svolgere anche altre attività.
L’Unione europea ha appena approvato un documento per aiutare i giornalisti a difendersi dalle pressioni e dalle interferenze del potere politico. A Bruxelles sembrano capire che i giornalisti o sono controllori del potere, cioè cani da guardia come li chiamano gli americani, oppure sono cani da compagnia o da passeggio, che dal potere si lasciano accarezzare e portare al guinzaglio.
E’ curioso che proprio adesso, in Italia, l’Ordine nazionale abbia fatto la proposta di cancellare l’aggettivo “esclusiva” riguardo all’attività dei professionisti, per sostituirlo con “prevalente”. Come dire che di tanto in tanto possono indossare una casacca, magari durante una festa di partito o mentre svolgono un compito impegnativo all’interno dell’azienda nazionale del servizio pubblico televisivo. Invece, il giorno in cui decidono di fare politica, magari perché chiamati alla guida di un ministero, è più logico che chiedano di essere sospesi dall’Albo. Se passasse l’aggettivo “prevalente” la confusione di ruoli aumenterebbe ancora di più. I cittadini non capirebbero da che parte sta il giornalista che sentono parlare.
domande scomode
Ci pensino certi colleghi: quando intervistano il leader di un partito, la facciano anche una domanda scomoda. Come la faceva Enzo Biagi, come la faceva Sergio Zavoli. Il lettore apprezzerà. Questi erano i professionisti del giornalismo ai quali pensava il legislatore di 60 anni fa, e questi ancora sono indispensabili alla collettività.
Ricordate Enrico Ameri e Sandro Ciotti? I sommi cronisti del calcio italiano non facevano mai capire per quale squadra tifavano. Stavano bene attenti a come usavano le parole, a non far nemmeno sospettare di essere interisti o romanisti, iuventini o napoletani. Erano credibili. Perciò gli appassionati del pallone li stimavano e li rispettavano. I giornalisti politici sono diversi rispetto ad Ameri e a Ciotti? Alcuni forse credono che con le proprie opinioni salveranno la patria, che aiuteranno il governo o l’opposizione a vincere nelle urne? Purtroppo è più probabile che il risultato di molti loro interventi finisca per dare un altro colpo alla credibilità del giornalismo, già minacciato e bastonato da più parti e sul quale pure poggia, come dicono i giuristi, la solidità della nostra democrazia.